Genova studia sensori hi tech per il recupero post ictus

  • Postato il 30 settembre 2025
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ricerca unige ictus

Genova. Parte dall’Università di Genova l’attività di sviluppo di nuove tecnologie che potrebbero aiutare le persone colpite da ictus a recuperare l’attività motoria. La sfida è quella di andare a leggere l’attività elettrica del cervello, anche nelle regioni profonde, per fornire una stimolazione “personalizzata”, solo quando necessario, fornendo un supporto alla riabilitazione. Sono queste, spiegate in parole semplici, le nuove frontiere della “eletrroceutica” una disciplina che, a differenza della farmaceutica, usa la stimolazione elettrica a fini terapeutici e che, nel giro di una decina di anni potrebbe sviluppare dispositivi in grado di aiutare i pazienti colpiti da ictus a riprendere una vita normale. Si tratta di una delle attività supportate dal Progetto Mnesys, la più grande rete europea per lo studio delle neuroscienze finanziata dal Pnrr – guidata dal presidente, Enrico Castanini, e dal direttore scientifico Giovanni Uccelli – che ha raccolto oltre 125 partner tra università, enti di ricerca e imprese.

A raccontare questa ricerca, nel corso di una conferenza all’Accademia di Scienze e Lettere di Genova, Michela Chiappalone, professore associato dell’Università di Genova che, nel contesto del Progetto Mnesys coordina le attività di ricerca su queste terapie. “Io sono coinvolta nello Spoke 6 – spiega – e mi occupo degli studi relativi all’Ictus. Il nostro obiettivo è di sviluppare un trattamento elettrico terapeutico, personalizzato sulla base dei segnali che registriamo dal cervello dei nostri modelli. Al momento ci stiamo occupando di modelli sperimentali ma i risultati sono promettenti. Grazie a nuove tecnologie, infatti, possiamo studiare l’attività elettrica non solo sugli strati più superficiali del cervello ma anche nelle regioni più profonde, e questo ci permette di capire cosa succede quando c’è un danno e di sapere come intervenire al meglio nel momento in cui il danno si è presentato”.

Studi pubblicati su riviste scientifiche, infatti, hanno dimostrato che una persona sana ha un coinvolgimento migliore con attività elettrica ‘su misura’ rispetto a quando gli stimoli non sono personalizzati. “L’obiettivo è capire se c’è un recupero anche motorio nel momento in cui c’è un danno – spiega – e verificarlo su campioni sperimentali, aumentando via via la complessità: da quelli semplici, in vitro, fino ad arrivare all’uomo, cercando di rendere questo trasferimento di tecnologia il più veloce possibile”. Uno studio iniziato nel 2015, in collaborazione con la Kansas University, che si è ampliato con Mnesys, allargandosi alle università di Firenze e Pavia e alle imprese coinvolte nei bandi a cascata e che potrebbe dare risultati concreti in tempi relativamente brevi. Un passo importante per un tipo di tecnologia che si potrebbe anche allargare.

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“Per il momento noi ci occupiamo dell’aspetto motorio e non di quello cognitivo – sottolinea Chiappalone – i task che facciamo svolgere ai nostri modelli sperimentali sono molto semplici, sono task comportamentali come, per esempio, prendere un oggetto, o cose di questo tipo. Quindi non possiamo dire se su altri fronti ci può essere un un effettivo recupero. Però è un punto di partenza, pensiamo a chi non può utilizzare un arto, già il fatto di poterlo riutilizzare è un ottimo incentivo a continuare, e più c’è il coinvolgimento anche emotivo e migliori sono i risultati”.

Un discorso analogo anche per quelli che riguarda altri tipi di tecnologia che si possono associare. “Al momento gli esoscheletri o i macchinari per la riabilitazione non sono previsti nel nostro progetto – prosegue Chiappalone – ma è possibile un loro impiego magari per velocizzare o consolidare il recupero, è una cosa che abbiamo già in mente. Abbiamo anche scritto un lavoro in cui si forniva una prospettiva di integrazione di tecnologie differenti per poter, appunto, velocizzare la fase di recupero.”. Prospettive interessanti, quindi, che potrebbero portare a risultati in tempi relativamente brevi. “Questa ricerca è estremamente innovativa, ma allo stesso tempo ancora acerba – conclude Chiappalone – perché si basa su tecnologie, come gli elettrodi che permettono di registrare attività sotto la superficie cerebrale, che cominciano ad essere testati solo adesso sull’uomo. C’è un background di tecnologie che ancora non sono disponibili ma che saranno sviluppate nel giro di 5 anni, e penso che tra una decina di anni potremo fare concretamente quello che adesso stiamo testando sui modelli”.

Autore
Genova24

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