Giovanna orfana di femminicidio: la famiglia adottiva l’ha aiutata a superare il lutto. Parliamone
- Postato il 30 aprile 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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In Italia, uno ogni tre orfani di femminicidio ha visto morire sua madre con i propri occhi. Uccisa dal padre. Non nei sogni, non nei racconti. L’ha vista cadere a terra, colpita a morte. E lui — il figlio, la figlia — è rimasto lì. Piccolo, muto, devastato. Alcuni hanno provato a fermare l’assassino. Altri si sono nascosti, facendo finta di dormire. Altri ancora, da allora, non riescono nemmeno a nominarla senza tremare.
Sto raccogliendo le loro storie. Una per una.
Sono tanti. Hanno la voce rotta da qualcosa che ancora vive e fa male. Alcuni sono rimasti sovrastati dal dolore. Altri raccontano storie di resistenza. E di redenzione.
Una bambina orfana di femminicidio è Giovanna, oggi insegnante di 45 anni, laureata cinque volte, che ha visto morire in un colpo solo la nonna e la madre. Ha provato a proteggerla, mettendosi tra lei e il padre a braccia aperte. Non è servito.
Giovanna è sopravvissuta. Ed è riuscita a elaborare il lutto grazie all’aiuto profondo e tenace di una famiglia adottiva che le ha insegnato a trasformare l’odio in memoria e responsabilità.
Ma Giovanna è l’eccezione. Non la regola. Quanti bambini non ce la fanno?
Quando un bambino perde una persona amata in modo violento, la sua risposta al lutto può assumere forme complesse e durature. In particolare, quando il decesso della figura di attaccamento avviene in modo traumatico — come nel caso dei figli testimoni di un femminicidio — non siamo più di fronte a un semplice lutto, né a un trauma isolato, ma a un quadro clinico che compromette la capacità stessa di elaborare la perdita.
Molti di loro sviluppano una condizione devastante: il Child Traumatic Grief (CTG).
Non è solo lutto. E non è solo trauma. Il CTG si colloca all’intersezione tra i due, senza coincidere né con il PTSD (Post Traumatic Stress Disorder) né con il lutto complicato. È una condizione psicopatologica in cui la reazione traumatica alla morte interferisce con l’elaborazione del lutto, bloccandolo. Un trauma che impedisce di fare memoria.
Nei racconti di vita quotidiana dei bambini che hanno visto morire la madre, il dolore è contaminato: dal sangue, dalle urla, dal terrore, dal senso di colpa. Molti di questi bambini, pur essendo vittime, sviluppano un profondo senso di colpa per essere sopravvissuti. Si colpevolizzano per non essere riusciti a fermare l’omicidio, per non aver gridato abbastanza, per essersi nascosti, per aver avuto paura.
Questo meccanismo si chiama colpa da sopravvissuto: è una distorsione cognitiva tipica dei traumi gravi, in cui il bambino attribuisce a sé la responsabilità di ciò che non poteva controllare. Invece di affidarsi alla cura, si rifugia nel silenzio e nell’autopunizione. Ne derivano: incubi, evitamento dei ricordi, distacco emotivo, paure croniche, isolamento, iperattività, difficoltà scolastiche. Una frattura interiore che non guarisce da sola.
In Italia, dal 2000 a oggi, ci sono oltre 2.000 orfani di femminicidio. Almeno uno su tre ha assistito all’omicidio o ha visto il corpo subito dopo.
Secondo studi clinici internazionali, tra il 20% e il 40% di questi bambini sviluppa forme gravi di CTG, soprattutto se testimone diretto. Parliamo, solo per l’Italia, di un numero che varia tra i 400 e gli 800 individui che oggi vivono senza presa in carico, senza diagnosi, senza terapia. Non sappiamo nemmeno chi sono.
Il Fondo per gli orfani di crimini domestici esiste ma è lento, burocratico, spesso inaccessibile. Solo una minoranza dei bambini riceve supporto psicologico. Meno del 20% accede a un percorso terapeutico continuativo. Non esistono protocolli nazionali. Non esiste una mappatura dei bisogni.
Giovanna — e altri come lei — si salvano grazie all’amore. Ma non possiamo più pensare che basti l’amore delle famiglie adottive – quando ci sono – a salvare chi resta. Serve ora un Registro Nazionale dei Minori Vittime di Femminicidio, che raccolga non solo i nomi, ma i bisogni: psicologici, scolastici, legali, abitativi. Un registro che attivi risposte tempestive, che unifichi le competenze, che metta al centro il bambino, non la macchina amministrativa.
Sto raccogliendo le loro storie. Una per una.
Perché se lo Stato non li ascolta, almeno la memoria — che può ridare loro voce — li protegga. Ma non basta. Serve una politica pubblica del risarcimento, della cura, della prevenzione. Perché un bambino che perde madre, padre e casa in un colpo solo non può essere lasciato solo.
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