Mahmoud non è un bambino mutilato, ma un essere umano che in una foto racconta una storia

  • Postato il 27 aprile 2025
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di Rosamaria Fumarola

In tanti in questi giorni avranno avuto occasione di visionare la foto di Samar Abu Elouf, fotoreporter del New York Times, vincitrice del World Press Photo 2025, in cui è ritratto un bambino di nove anni con i segni inequivocabili dell’aberrazione della guerra a Gaza. Mahmoud Ajjour, questo il nome del giovane palestinese, non ha più le braccia, al loro posto ha solo due moncherini. La rappresentazione della violenza purtroppo genera assuefazione: siamo abituati ai corpi dilaniati delle piccole vittime di Gaza, trasportati correndo da un padre o una madre disperati, come sarebbe chiunque fosse costretto a portare tra le braccia il corpo del proprio figlio senza riuscire a capacitarsi dell’orrore di cui partecipa.

Queste immagini tuttavia passano senza lasciare un segno profondo in chi guarda perché chi le scatta, per necessità o cultura, non rappresenta un dramma individuale ed il nostro è invece un mondo fortemente individualistico, organizzato attorno ai bisogni del singolo ed ai suoi diritti. Un mondo il nostro, costruito sulla specificità e la sacralità della vita di ognuno e che ci sembra perciò diverso dal teatro di un dramma collettivo quale invece è quello della guerra.

Il ritratto di Mahmoud racconta però una tragedia individuale, facendola rientrare in quel “linguaggio” che siamo abituati a decodificare. È forse questa la ragione per la quale la giuria non ha avuto sin da subito alcun dubbio sul valore dell’immagine, sul peso inequivocabile di quanto “dice”. Nonostante ciò esiste a mio avviso una dimensione ulteriore che fa dello scatto qualcosa se possibile di più potente ed è la perfetta bellezza del giovane palestinese, le cui mutilazioni ne sono una componente.

Benché questa mia lettura potrebbe ad una frettolosa analisi apparire oltraggiosa di un dolore che non trova più parole per essere raccontato, quale quello appunto di un popolo che subisce un genocidio, sarà opportuno che spieghi meglio ciò che a mio avviso fa dello scatto un capolavoro assoluto e non in una dimensione estetizzante.

L’immagine della fotoreporter Samar Abu Elouf è infatti già classica, se per classico si intende il racconto dell’uomo che troviamo rappresentato in capolavori quali l’Apollo del Belvedere. In tanti pensano che la bellezza eterna di alcune statue dell’antichità risieda nella perfezione dei corpi, come se ai Greci stesse a cuore una dimensione solo esteriore dell’ uomo e non qualcosa di molto più profondo, che ha influenzato ed a quanto pare influenza ancora l’intero mondo.

Lo sguardo di Mahmoud è anche quello dei personaggi ritratti in alcuni capolavori del Novecento, come quelli di Modigliani. Si potrà dire che è la composta dignità del bambino a commuoverci e senz’altro i suoi occhi ci spiazzano, perché ci aspetteremmo che fossero pieni di rabbia e di odio ed invece sembrano concentrati su altro, su qualcosa che non capiamo e che ci impone di fermarci ad osservare con più attenzione. Ritratto non è infatti un bambino mutilato, ma un essere umano che racconta una storia che finalmente vogliamo ascoltare, come quei capolavori che in eterno “parlano” anche se non sappiamo cosa dicano e che vogliamo restino per sempre a parlare anche a chi verrà dopo di noi e che dovrà affrontare la sfida della conoscenza senza vincerla mai.

Ecco, Mahmoud parlerà per sempre e finalmente nessuno potrà sottrarsi al suo racconto.

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