Giovanni Brusca libero: azionò il telecomando della strage di Capaci in cui morirono Falcone, Morvillo e gli agenti della scorta

  • Postato il 5 giugno 2025
  • Giustizia
  • Di Il Fatto Quotidiano
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Giovanni Brusca, il boia di Capaci, il capomafia che azionò il telecomando che innescò l’esplosione il 23 maggio del 1992 in cui morirono Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta, è libero. A fine maggio sono trascorsi i 4 anni di libertà vigilata impostigli dalla magistratura di sorveglianza, ultimo debito con la giustizia del boss di San Giuseppe Jato che si è macchiato di decine di omicidi e che , dopo l’arresto e dopo un primo falso pentimento, decise di collaborare con la giustizia. In tutto ha scontato 25 anni di carcere: roventi polemiche seguirono la sua scarcerazione e la decisione di sottoporlo alla libertà vigilata. Brusca continuerà a vivere lontano dalla Sicilia sotto falsa identità e resterà sottoposto al programma di protezione. Nelle mani di Brusca c’è anche il sangue dell’undicenne Giuseppe Di Matteo, sequestrato il 23 novembre 1993, incarcerato per oltre due anni e poi disciolto nell’acido l’11 gennaio 1996, solo perché figlio dell’uomo d’onore Santino Di Matteo, che aveva iniziato a collaborare con la giustizia. Nel 2022, un anno dopo la scarcerazione, la sezione Misure di prevenzione del tribunale di Palermo aveva accolto la valutazione del questore del capoluogo siciliano Leopoldo Laricchia, che lo riteneva ancora “socialmente pericoloso”.

L’anno della scarcerazione – Nel 2021 era arrivata la scarcerazione per fine pena, una notizia che aveva provocato un coro di reazioni e commenti indignati da parte della politica, da Letta a Meloni, con la richiesta di cambiare la norma sui collaboratori di giustizia. Ma quella stessa norma fu voluta da Falcone. Colpevole di centinaia di omicidi e stragi, il boss di San Giuseppe Jato è uscito dopo “soli” 25 anni perché per gli atroci crimini commessi ha ottenuto una serie di sconti di pena. Li ha avuti grazie alla legge 82 del 1991: “Nuove norme per la protezione e il trattamento sanzionatorio dei collaboratori di giustizia”, si chiama e a progettarla è stato il giudice siciliano. Per quella norma Falcone si era ispirato al Witness protection act in vigore negli Stati Uniti, grazie al quale Tommaso Buscetta aveva ottenuto la libertà vigilata. Senza sconti di pena, senza la possibilità di avere permessi premio e soprattutto senza la garanzia di avere protezione per sé e per i propri cari, un mafioso non avrebbe motivo di collaborare con la giustizia, né tanto meno di autoaccusarsi di stragi e delitti efferati, chiamando in causa ex sodali ed esponendo i propri famigliari al rischio di finire assassinati. A Tommaso Buscetta, il boss dei due mondi, il primo grande pentito di Cosa nostra che con le sue dichiarazioni rese possibile il Maxiprocesso, Totò Riina fece uccidere in totale 35 parenti. A Francesco Marino Mannoia, il chimico più bravo della piovra, assassinarono la madre e due zie. A Mario Santo Di Matteo, detto Mezzanasca, rapirono, uccisero e sciolsero nell’acido il figlioletto di 15 anni: a occuparsi di quel raccapricciante omicidio fu proprio Brusca.

Le origini e le zone d’ombra – Rampollo di una storica famiglia mafiosa di San Giuseppe Jato, Brusca era soprannominato ‘u Verru, il porco, e ‘u scannacristiani, lo scanna persone. Arrestato il 20 maggio 1996 in una villa vicino al mare di Agrigento, la sua collaborazione con la giustizia è problematica: all’inizio aveva intenzione di screditare il mondo dell’antimafia, gli altri collaboratori di giustizia, politici di alto livello. Poi iniziò a parlare raccontando di aver esordito come artificiere della strage di Rocco Chinnici. Brusca si è autoaccusato della strage di Capaci e dell’uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo. Durante la sua collaborazione ha raccontato anche di quando nell’inverno del 1991 Riina ordinò la strategia dell’attacco allo Stato a suon di bombe, della Trattativa aperta nel 1992 con alcuni esponenti delle istituzioni, dell’obiettivo coltivato insieme a Leoluca Bagarella “di arrivare a Berlusconi” tramite Vittorio Mangano.

Su alcuni punti delle sue dichiarazioni, però, persistono i coni d’ombra: sulle dinamiche operative della strage di Capaci, sui motivi reali che portarono al rapimento del piccolo Di Matteo, sui racconti relativi a presunti – e finora mai dimostrati – incontri tra Giuseppe Graviano e Silvio Berlusconi, con il primo che – a sentire Brusca – conosceva persino il valore dell’orologio al polso del secondo. In ogni caso, le sue dichiarazioni sono state considerate attendibili in decine e decine di processi. Per questo motivo dal 2000 ha incassato lo status di collaboratore di giustizia e dal 2004 gli è stato concesso di uscire dal carcere ogni 45 giorni per far visita alla famiglia in una località protetta. Adesso è tornato in libertà.

(immagine d’archivio)

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Il Fatto Quotidiano

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