Gli italiani sanno tutto dei femminicidi compiuti, nulla sulla cultura che li genera

  • Postato il 22 ottobre 2025
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di Rosamaria Fumarola

In Italia le donne rischiano ancora di essere ammazzate dagli uomini che dicono di amarle, anzi il numero dei cosiddetti femminicidi pare essere in aumento. Con cadenza quotidiana apprendiamo della morte di almeno una donna per mano del proprio uomo, veniamo a conoscenza dei particolari macabri del delitto e ne seguiamo le vicende giudiziarie, senza che però nessuno di noi comprenda davvero la sostanza dei fatti e men che meno gli aspetti psicologici profondi dei protagonisti, forse perché la natura della divulgazione mediatica lo impedisce o forse perché la priorità non è quella di informare i cittadini, ma di tenere in piedi il circo mediatico.

Gli italiani sono convinti di essere adeguatamente informati e non comprendono come mai la strage delle donne più che diminuire, tenda a crescere. Esiste a tal proposito una responsabilità di chi gestisce la politica dei mezzi di informazione, che per assicurarsi l’attenzione del pubblico prediligono una lettura superficiale, capace di sollecitare un interesse morboso ma non di indurre a comprendere i meccanismi profondi che generano i fatti.

Tuttavia non esiste un modo per governare il reale se non conoscendolo, resta pertanto da domandarsi a che gioco si stia giocando se per combattere il fenomeno dei femminicidi i programmi di approfondimento ospitano commentatori in grado a malapena di esprimere una propria opinione. Dolersi, manifestare cordoglio alle famiglie delle vittime sono atti più che legittimi, ma non in grado da soli di disinnescare i meccanismi che portano certi uomini alla violenza verso le donne. È evidente che l’informazione a cui la maggioranza del pubblico accede, per inconsistenza ed inutilità è incapace di produrre una cultura diversa. È infatti impossibilitata ad indurre una riflessione che non sia preda di reazioni esclusivamente emotive.

La cultura maschilista e patriarcale ha dogmi e pratiche di cui si serve per perpetuarsi e che non sono scalfiti da leggi che garantiscono la parità tra uomini e donne. Di tali componenti i media non parlano mai, eppure porre i giusti interrogativi a professionisti seri, che hanno dedicato la loro vita a comprendere cosa scateni la violenza omicida degli uomini non sarebbe complicato.

Ciò permetterebbe di fare luce davvero su ciò che è all’origine di tante tragedie, scoprendo ad esempio che un uomo violento è stato durante la propria infanzia accusato di essere troppo debole verso le donne. Si potrebbe insegnare agli uomini, non solo alle donne, a riconoscere i segni con cui il maschilismo si manifesta, per essere capaci di respingerlo. Tutelare le donne è infatti sacrosanto, ma il lavoro più difficile per proteggerle davvero riguarda gli uomini e la consapevolezza di sé che hanno.

Bisognerebbe comprendere che la spettacolarizzazione della tragedia pone in ombra la natura vera dei protagonisti, che salgono agli onori della cronaca non per meriti, ma per una violenza agita o subita. È necessario guardare i carnefici per quello che sono e che solo poche trasmissioni si impegnano a fare emergere.

Basta visionare in tv il processo per la morte della giovane Giulia Cecchettin, per cogliere l’essenziale e cioè che aldilà di ogni giudizio soggettivo il suo assassino è un individuo senza qualità, privo della capacità di mantenere un rapporto con la giovane vittima. Turetta lo sapeva e non lo accettava. A farne le spese è stata Giulia. Esisteva una via diversa per ricucire la ferita aperta del proprio fallimento? Certo, andava però cercata. Cambiare ciò che non si è capito è una partita persa in partenza.

Non si comprende perciò la ragione per cui l’Italia, per tramite della sua dirigenza politica, respinga ancora il progetto di introdurre l’educazione sessuale nelle scuole. L’immobilismo culturale ed il portato maschilista a cui condanna le nuove generazioni, anche grazie ad una informazione malata, non potranno che perpetuare sine die lo stesso tragico copione per il quale si verseranno ancora colpevoli lacrime di coccodrillo.

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Il Fatto Quotidiano

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