Gruber e Salis erudiscono la sinistra, tra critiche a Schlein e ossessioni centriste
- Postato il 4 novembre 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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Giovedì sera, nel salotto di Otto e Mezzo su La7, due dame (l’incombente Lilli Gruber, padrona di casa, e la marmorea Silvia Salis, sindaca di Genova) sciorinavano come verità di fede i più reiterati luoghi comuni che hanno reso la Sinistra un ectoplasma simil-destrorso, in balia della Destra vera, quella cannibale e zannuta.
Iniziava Gruber in fregola da scoop, cercando di estorcere alla sua ospite la confessione della propria disponibilità a soppiantare Elly Schlein sulla poltrona di segretaria Pd. Arriva così la prima sentenza puerile, da manuale delle giovani marmotte in politica: le elezioni si vincono al centro, mentre la povera Elly (in verità un’ospite in casa d’altri, proveniente dal più manieristico e tardo Sessantotto, tutto chiacchiere e look casual) sarebbe troppo “spostata a sinistra”. Del resto lo hanno reiteratamente certificato i politologi pronto intervento di Corriere e Repubblica, al punto da convincere persino Sabrina Ferilli, militante tutta piadina e nostalgie togliattiane.
Schlein “radicale”. De che? Solo perché lo dice il pariolino Calenda, che vede putiniani dappertutto e blatera di centro come mitica Thule in cui la politica dovrebbe redimersi? Il fatto è che questo centro salvifico esiste solo nella mente di Gruber e dei presunti “moderati”, ossessionati dal timore che qualcuno possa toccargli la roba. I “legge e ordine” inseguiti dall’incubo che la plebaglia metta a soqquadro le piccole Versailles di cui sospirano l’invito, dal Rotary alla Confindustria.
Un po’ come la classe nullafacente che Marcel Proust, all’ombra delle fanciulle in fiore, ritrae nel lusso dimostrativo della villeggiatura nel borgo immaginario di Balbec. Disturbata da un retro pensiero angosciante: “se l’oscura folla che scruta avidamente nella notte non verrà ad afferrarla nel suo acquario per mangiarsela”. Niente di nuovo rispetto alla Maria Antonietta regina di Francia che prescrive brioches al popolo in tumulto per il pane che manca. Solo che i reali dell’Ancien Régime finirono ghigliottinati, mentre gli attuali epigoni politicanti si limitano a perdere sistematicamente le elezioni. Anche se non capiscono come mai. Immersi nell’equivoco che Gruber riproponeva senza tentennamenti e che Salis accreditava come indiscutibile con la sua ben imparata lezioncina da Lady Perfettini: dopo aver contrapposto la propria trinità politica (Democrazia, Progresso e Libertà) al Dio-Patria-Famiglia di Meloni (la trimurti che Massimo Giannini, sino a quel momento a far tappezzeria in trasmissione, attribuiva a Mussolini, ignorandone la paternità di Giuseppe Mazzini; giustamente considerato retrogrado da Marx e quindi un pericolo per il movimento operaio), eleggeva a primario problema della sua amministrazione la sicurezza.
E qui troviamo un altro bandolo dell’equivoco mortale. Quello di scimmiottare la destra. Visto che le priorità programmatiche di Salis non sono la democrazia come partecipazione-controllo, il progresso inclusione o la libertà dal bisogno, bensì un problema di ordine pubblico. L’effetto di quella distorsione terroristica e nevrotizzante nelle percezioni collettive creata in Italia per primo da Emilio Fede col suo telegiornale grondante sangue, scippi e violenza; le nostre città ridotte a Bronx. Ossia l’operazione di potere importata dagli Usa da Berlusconi: deviare la questione securitaria dalla dimensione sociale (il posto di lavoro, la pensione, la sanità pubblica, ecc.) in quella ansiogena dei rischi per la propria incolumità (avvelenatori di pozzi, mendicanti e vagabondi davanti alla porta di casa, maniaci sessuali, possibilmente extracomunitari, ecc.).
La ricetta depistante per cui si vincerebbe in politica adottando la formula reaganiana-thatcheriana di detassare gli abbienti e blandire gli impauriti promettendo ronde di vigilantes. Tutto nasce dal trauma fine anni ’70 che colpì il personale dirigente progressista, imbolsito da decenni di successi grazie al consenso welfariano, incapace di reagire all’avvento di una destra al contrattacco. Cui seppe solo contrapporre l’imitazione light detta Terza Via; che il politologo di Harvard Roberto Mangabeira Ungher stroncò come “la Prima Via con un po’ di zucchero”. Per cui fa scuola Giorgia Meloni quando dichiara che incassando le tasse lo Stato mette le mani nelle tasche dei cittadini. Mentre la Vera Via è altro. È abbandonare le scorciatoie verso binari morti e tornare al pensiero strategico: analisi della società (a chi rivolgersi per aggregare nuovi blocchi sociali, smettendo di inseguire elettorati altrui) e risposte progettuali alle criticità della transizione in atto.
Il tutto supportato da strategie comunicative in grado di farsi capire. Non certo le banalità furbesche e mistificatrici, tipo la barzelletta del fantomatico “campo largo” da stipare di tutto e il suo contrario. Tipo “basta con le corse a chi è più di sinistra”. Come ebbe a dire Silvia Salis nella recente riunione romana dei sindaci cemento e mattone: da Sala a Gori, con benedizione di Stefano Bonaccini. I primi interlocutori del Salis-progetto di cui già si mormora a Genova: non scalare l’ingestibile Pd – copy Gruber – ma candidarsi a federare (copy Renzi?) le bande di spregiudicati arrampicatori di partito, per cui “centro” e “campo largo” significano solo occupazione dello spazio politico.
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