Ho visto coi miei occhi le condizioni di lavoro alla San Martino di Prato: servono leggi specifiche
- Postato il 2 settembre 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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Ancora Prato, ancora nel distretto della moda.
Tante volte ne ho scritto, tante volte ho ascoltato al telefono le voci degli operai e dei delegati sindacali che mi raccontavano le loro storie. Questa volta è diverso. Lo è ogni qual volta vedi con i tuoi occhi le persone. Sto ispezionando queste boite, fabbriche più simili a garage, accompagnato dai corpi e dai volti di questi uomini che mi mostrano i luoghi e i segni del loro sfruttamento. Condizioni di lavoro che mi ricordano le filande di fine ‘800, dove le operaie lavoravano in media 16 ore al giorno.
A Prato, alla confezione San Martino, i lavoratori sono pagati a cottimo, pochi centesimi a capo. Anche se hanno un contratto, a volte lavorano, altre volte – magari per settimane – no: si chiude e loro non ricevono stipendio. Quando lavorano – mi raccontano – sono sfruttati fino 14 ore al giorno. Mi siedo con loro e mi sussurrano che hanno subito minacce, i loro contratti sono nelle mani dei caporali, come sono i caporali a metterli a dormire ammassati dentro sottotetti angusti e camerate multi letto. “Privilegi” che si perdono se si alza la testa. O se perdi tutto. Come è successo a loro.




Da due mesi questi operai occupano la fabbrica e sono in sciopero perché, dopo un controllo dell’Asl, il titolare ha tentato di smantellare tutto per sfuggire alle sanzioni e agli interventi richiesti dall’Azienda Sanitaria per rispettare le norme di sicurezza. Oggi, solo grazie alla presenza e al coraggio dei lavoratori, la boita non è del tutto abbandonata e vuota.
Chiedo ai lavoratori se hanno mai visto il titolare e mi spiegano che il titolare è un prestanome. Conoscono il vero investitore. Mi dicono che il padre del vero “padrone” viveva e dormiva nella fabbrica fino a poco tempo fa. Chi ha davvero le redini e ha investito in quel capannone non ha dato l’ultimo stipendio né vuole dargli il Tfr.
È l’ennesima vicenda sporca nel distretto pratese della moda e – dopo mesi di silenzio – la destra oggi prova a dire qualcosa solo in funzione di una lettura razzista del problema. Come se fossimo davanti a un sistema criminale venuto da lontano, a un virus esterno, incistato nella natura infida della malavita cinese. Invece, è molto più semplice: siamo nel cuore marcio della logica del profitto, che senza briglie si mostra violenta e predatrice a ogni latitudine e in ogni tempo. Ed è questa, sempre più, l’anima nera del made in Italy, dei marchi italianissimi che accumulano capitali appoggiandosi su questa rete di aziende fuori legge.
La “legge del contoterzismo” funziona dalla prima commessa fino alla casa madre: nessuno vede, nessuno sa. Solo grazie alle testimonianze dei lavoratori è stato possibile per i SUDD Cobas rintracciare i committenti, quelli che dovrebbero sentirsi responsabili di ciò che avviene lungo la filiera. Eppure, non esistono norme che impongano la trasparenza in tal senso. Con buona pace delle destre e della loro falsa coscienza, sono anni che denunciamo tutto questi nel silenzio totale del governo.
Ora, sarebbe il momento che Giorgia Meloni e la ministra Calderone si rendessero conto che tutto ciò accade: serve fare applicare la norma esistente, in particolare la l. 276/2003, che rende il committente responsabile delle condizioni di lavoro. Ma servono anche leggi specifiche: forme di intermediazione legale per mettere all’angolo i caporali, per esempio attraverso i Centri per l’impiego. E Prefetture e Comuni devono dare una risposta sia all’emergenza abitativa legata a caporalato e sfruttamento sia ai problemi legati al permesso di soggiorno. Come si può denunciare tutto questo sennò?
Stiamo silenziosamente reintroducendo la schiavitù. E, come da copione, lo facciamo con uomini e donne stranieri, che altre leggi scellerate privano di diritti, tutele e dignità. Non c’è neanche bisogno di andarli a prelevare da un altro continente. Arrivano loro, spinti dal desiderio che ogni essere umano insegue: migliorare le proprie condizioni di vita. Ad accoglierli trovano la finzione ipocrita di una barriera totale: una barriera che, sapientemente, si accanisce su alcuni provocando morti e dolori indicibili, solo per raccontare di averli fermati tutti. Invece, fa passare tanti altri, senza i quali quell’ economia neoschiavista non potrebbe reggere.
Possiamo accettarlo?
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