I 23 anni della Carta di Roma con un deferimento Onu dell’Italia alle porte

  • Postato il 1 luglio 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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Ricordare il 23º anniversario della firma della Carta di Roma con un possibile deferimento all’Onu dell’Italia non è certo ciò che ci saremmo aspettati. In un altro contesto, accostare il nome di Roma allo Statuto della Corte dell’Aia sarebbe stato motivo di orgoglio; oggi, invece, i tribunali internazionali sono percepiti come un ostacolo alla competizione tra Stati e la giustizia come un fardello da cui i governi cercano in ogni modo di liberarsi.

Il deferimento è una questione seria, e l’indagine condotta di recente dalla Procura dell’Aia ha smontato, punto per punto e con rigore tecnico, le motivazioni addotte dal governo Meloni per giustificare il rilascio del torturatore Almasri. Il vero problema, in questo caso, è l’ostinazione arrogante di un esecutivo che si rifiuta di ammettere di aver ignorato regole che, 23 anni fa, si era solennemente impegnato a rispettare, sacrificando tutto ciò per interessi ben lontani da quelli nazionali.

Basti pensare al fatto che l’ambasciatore italiano all’Aia, quello incaricato di tenere i rapporti con la Corte sia un fedelissimo del primo politico che la stessa ritiene potenzialmente responsabile: il ministro Carlo Nordio. Questo è un chiaro segnale del disinteresse dell’esecutivo verso qualunque norma che possa ostacolare la sua politica miope in materia di migrazioni e rapporti con paesi instabili dell’area mediterranea.

La CPI (Corte Penale Internazionale) non è certo un monumento al miracolo della giustizia globale: in 23 anni ha prodotto più carriere garantite, stage prestigiosi e spese ingenti che risultati tangibili. Tuttavia, ciò riflette più la confusione degli obiettivi e gli enormi ostacoli posti dagli stessi Stati membri, che non un fallimento totale del progetto di una corte universale per giudicare i crimini contro l’umanità. La pace globale può funzionare solo con un meccanismo sanzionatorio riconosciuto da tutti, non con l’arbitrarietà imposta dall’opportunismo politico.

La Corte non produce grandi risultati perché gli Stati ne ostacolano il funzionamento: cercano di non distruggerla apertamente, ma di ridurla all’irrilevanza — formalmente attiva, ma inefficace. E così, al 23º anniversario, ci troviamo a discutere delle minacce in stile gangster rivolte ai suoi giudici e funzionari da parte della nuova amministrazione statunitense, che applica loro sanzioni pensate per signori della guerra e terroristi, solo perché il tribunale osa esercitare la sua autonomia verso un alleato.
O dobbiamo assistere al doppio standard europeo: si applaude il mandato d’arresto per il premier russo Putin, ma si ignora quello per il premier israeliano Netanyahu.

Oggi più che mai è necessario un tribunale di ultima istanza per i diritti umani; un osservatore che abbia potere di intervenire laddove i sistemi nazionali non funzionano o scelgono di non farlo; in una fase di opportunismi nazionali, derive autoritarie e mercato senza freni, l’ICC sembra davvero un fossile del ‘900 destinato ad essere spazzato via dal turbine del riarmo e dei conflitti globali. Eppure è uno dei pochi fari democratici rimasti per chi non si rassegna al suono delle armi come unica forma di politica rimasta.

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Il Fatto Quotidiano

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