I giornalisti che si ostinano a non voler parlare di genocidio pensano di poter misurare la morte

  • Postato il 8 ottobre 2025
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di Roberto Del Balzo

Come si misura la morte? Con quali strumenti vengono fatte le classificazioni di cui i santi patroni dell’informazione, sempre in televisione, impassibili, con gli occhi acquosi fissi sulle telecamere, negano lo strazio e la realtà dei civili di Gaza? Bisogna misurare quanta pelle rimane sulle ossa dei bambini e degli anziani? Quante mosche indispettite dagli ultimi lenti respiri volano sulle piaghe di un corpo ischeletrito disteso su qualche coperta?

Perché questi giornalisti, direttori e compagnia cantante sono sempre pronti a puntualizzare, spesso in modo pavido, senza assumersi la piena responsabilità di quel che affermano (rimandando a definizioni o dichiarazioni fatte da altri) che parole come “genocidio” o “carestia” non sono applicabili alla terra di morte su cui vagano senza forze gli ultimi resti dei palestinesi rimasti?

Scrivono ormai per pochi e vanno nei talk televisivi a portare la loro sprezzante negazione: vivono senz’anima, come Branca Doria, in un eterno riflesso condizionato che gli fa alzare gli scudi di protezione sul primato morale da difendere, custodi dell’indifferenza, protettori di una informazione che deforma il cuore. Parlano come se la coscienza non esistesse, come se la pietà fosse smarrita nel quotidiano tentativo di ribaltare la morale, di non concedere neppure un nome alle labbra bianche, piagate, arse dalla sete e dal sole, per loro ci vogliono calcoli, tabelle, enti a stabilire un genocidio, ci vuole soprattutto una pianificazione che per loro non esiste.

Questi oracoli dell’ipocrisia devono misurare, devono pesare i corpi ormai morti di bambini di pochi anni e pochi grammi, osservare bene la forma del teschio su cui si adagia una pelle trasparente, contare le lacrime di un popolo ed essere certi di quanta aria rimane nei polmoni devastati da un cielo nero di fumo e polvere: devono misurare la morte, devono avere la circonferenza del torace, dei fianchi e delle gambe quando rimangono attaccate al corpo dopo l’ennesimo missile su un campo profughi.

Sono attenti, infaticabili sentinelle della notizia da capovolgere, sempre a ribadire la difesa costante delle tesi del più forte, senza alcuna vergogna, senza sentirsi sporchi, senza alcuna paura del giudizio, neppure quello divino. Ad ascoltarli, senza un sussulto, senza neppure un battito accelerato, ci sono altri giornalisti: prigionieri di un effetto Droste, una ripetizione infinita da cui è impossibile fuggire: un teatrino di dichiarazioni, condanne generiche, appelli alla pace.

Così come molti politici la cui voce non è che propaganda, e il loro sguardo ha un’unica direzione: l’abisso, dove non si vedono che cadaveri.
È la politica ridotta a rituale retorico: proclami senza conseguenze, indignazione senza azione. Una recita che si regge sul silenzio delle decisioni mancate, sulle convenienze, sull’ignavia e in fondo sulla difficoltà stessa di potersi ancora dire esseri umani. In cerca della Pace rimaniamo senza pace ad ascoltare e leggere le loro parole che escono da un corpo la cui anima è già all’inferno.

Due righe però bisogna spenderle sulla vicenda Francesca Albanese: c’è una particolare miseria intellettuale in certi corsivisti dei “giornaloni” (chiamiamoli così senza paura) che, di fronte a figure come Francesca Albanese, scelgono di non confrontarsi con la sostanza delle sue denunce ma di costruire caricature retoriche, brandendo fallacie logiche come armi spuntate. Invece di contribuire a illuminare i meccanismi di un’occupazione e di una guerra che meriterebbero rigore e coraggio giornalistico, preferiscono spostare il dibattito sul piano simbolico ed emotivo, manipolando parole e intenzioni per screditare la persona più che affrontare i fatti. È la strategia antica di chi, privo di veri argomenti, invoca autorità morali per soffocare la discussione: non giornalismo critico, ma un riflesso pavloviano del potere, editoriali che fingono profondità e invece rivelano soltanto una profonda bassezza.

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