Il femminismo che riproduce la violenza contro cui dice di lottare getta su tutte l’ombra del fallimento
- Postato il 3 novembre 2025
 - Blog
 - Di Il Fatto Quotidiano
 - 2 Visualizzazioni
 
                                                                            Se una creatura dello spazio, arrivata sulla Terra con un’astronave, mi chiedesse di spiegare cosa sia per me il femminismo direi: si tratta di un pensiero che parte dall’assunto che il personale è politico e propone, come pratica, una metamorfosi profonda, che metta fine al sistema patriarcale tenendo presente che non si può smantellare la casa del padrone con gli attrezzi del padrone. Coerenza dunque, almeno potenzialmente (il personale è politico) e strumenti totalmente alternativi a quelli usati da chi abusa e alimenta le ingiustizie.
La faccenda degli attrezzi del padrone è il regalo sapiente della poeta femminista nordamericana Audre Lorde; la frase, contenuta nel libro Age, Race, Class and Sex: Women Redefining Difference, è dell’aprile 1980. Si tratta di dodici parole che racchiudono il senso profondo della filosofia della nonviolenza, che Lorde ha sempre intimamente collegato al femminismo.
Prendo ancora a prestito un brano del saggio appena citato, perché la riflessione di Lorde, che arriva da oltre quarant’anni fa, illumina un presente che ha enorme e urgente necessità di ispirazione. ”Il futuro della nostra terra può dipendere dalla capacità di tutte le donne di identificare e sviluppare nuove definizioni di potere e nuovi modelli di relazionarsi attraverso la differenza. Le vecchie definizioni non ci sono servite, e neanche la terra che ci sostiene. I vecchi schemi, non importa quanto riarrangiati intelligentemente per imitare il progresso, ci condannano ancora a ripetizioni modificate superficialmente degli stessi vecchi scambi, della stessa vecchia colpa, odio, recriminazione, lamento, sospetto. Perché abbiamo, costruiti dentro di noi, vecchi tracciati di aspettative e risposte, vecchie strutture di oppressione, e queste devono essere modificate nello stesso momento in cui modifichiamo le condizioni di vissuto che sono un risultato di quelle strutture. Perché gli strumenti del padrone non potranno mai smantellare la casa del padrone.”
Oggi viviamo tempi violenti, e la violenza, lontana e vicina, inevitabilmente ci pervade. Amplificata all’infinito dai social, che da strumento potenzialmente di liberazione è invece sempre più un megafono di odio, discriminazione e dominio, la violenza riceve nuovo impulso e segue strade sempre più malvagie: le generazioni più giovani rischiano di formarsi più che alla scuola in presenza in questa pericolosa agorà virtuale, priva di empatia e basata sul totalitarismo dei numeri: più seguaci influenzo, più potere acquisto, più denaro guadagno, anche sotto forma di consenso.
E’, di fatto, la vittoria piena del neoliberismo, che però trionfa anche su profili di donne e uomini che si dicono antagonisti al sistema, come nel caso delle tre attiviste social indagate per stalking e diffamazione a seguito della denuncia di un uomo messo alla gogna e di una esperta di social. Chi sceglie l’attivismo (mi riferisco alle donne che si dicono femministe) ha dinnanzi a sé due strade: o pratica la coerenza tendenziale di quel ‘personale che è politico’ e rifugge dall’imitazione del dominio oppure, se riproduce nei gesti e nelle parole la violenza contro la quale dice di lottare, vanifica non solo il suo operato, ma getta su tutte l’ombra del fallimento e della bugia.
Nessuna è infallibile, certo; ma se si sbaglia si deve chiedere scusa. Non andando lontano nel tempo il segretario della Cgil Landini avrebbe fatto una figura magnifica, dopo lo strafalcione sulla cortigiana, se avesse chiesto scusa e ammesso che, sì, anche i migliori sono imbevuti di sessismo, e che riconoscerlo è un primo passo per uscirne. Non è andata così, ed è stata una occasione persa per dimostrare l’alterità rispetto alla destra che sovente usa il bullismo e la misoginia contro le avversarie.
Eccoci ora al tribunale delle influencer femministe: i messaggi violenti, le liste di proscrizione condivise, gli insulti, le minacce triviali verso personaggi pubblici, verso altre donne, sono nient’altro che lo specchio della violenza contemporanea introiettata che, dal linguaggio, può diventare abuso verso chi, secondo una perversa convinzione di essere portatrici di verità e giustizia, merita processi sommari.
Ci sono indagini in corso e c’è un percorso giudiziario sulla vicenda, ne vedremo gli sviluppi. Resta lo sgomento per il tenore e il livello misero e triviale delle affermazioni fatte da donne impegnate, nello spazio pubblico, contro il sessismo e la misoginia che, quando la luce pubblica si spegne e subentra il (relativo) riparo della privacy del cellulare, usano gli stereotipi aborriti poc’anzi per insultare altre donne, come bulle di serie tv scadenti, salvo però essere invitate a convegni e seminari contro la violenza maschile. Qui non si tratta di ‘parolacce’, né di sbotti di rabbia, né di libertà di espressione, né di complotto contro l’attivismo: chi fa politica, in questo caso politica femminista, dovrebbe sapere che più si acquista rilevanza, potere, visibilità, più aumenta la propria responsabilità per ciò che si dice e per il proprio comportamento.
La libertà, senza responsabilità, è la triviale, malvagia e tossica pratica degli oligarchi e dei patriarchi del pianeta. Se vogliamo lottare contro di loro non possiamo, in nessun modo e mai, adottarne i comportamenti, le parole, le sembianze. E se si sbaglia, cosa che può capitare anche alle compagne più brillanti e determinate, si chieda scusa e si riveda il proprio operato.
L'articolo Il femminismo che riproduce la violenza contro cui dice di lottare getta su tutte l’ombra del fallimento proviene da Il Fatto Quotidiano.