Il ministero della Cultura falcia i contributi a molte eccellenze teatrali: il guaio non sono gli effetti, ma le cause
- Postato il 8 luglio 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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C’è un limite, a mio parere, nelle sacrosante proteste e nella motivata indignazione per le decisioni sconcertanti prese dalla commissione del Mic preposta alla assegnazione dei contributi del Fondo Nazionale per lo Spettacolo dal Vivo (Fnsv, ex Fus) in campo teatrale. Decisioni che vanno ben oltre i casi di cui si sta parlando di più, per ovvi motivi: il declassamento del Teatro Nazionale della Toscana, diretto da Stefano Massini (forse l’unico drammaturgo italiano vivente con un solido prestigio internazionale); la severa batosta assestata al Festival di Santarcangelo, uno di più longevi e prestigiosi del nostro Paese; l’ingiustificato decurtamento subito sia da Ert/Emilia-Romagna Teatro sia dal Teatro Metastasio di Prato, diretto da Massimiliano Civica.
Sono infatti decine le realtà colpite (Sud incluso), e ad elencarle viene fuori una vera e propria lista di eccellenze. Per stare ancora ai festival: Teatri di Vetro, a Roma, e Teatro Akropolis-Testimonianze Ricerca Azioni, a Genova, esclusi dal Fnsv, e non sono i soli; molti altri, da Teatro delle Moire/Danae Festival, a Milano, a Festival Ipercorpo, a Forlì, penalizzati con la severa riduzione del punteggio a un terzo del precedente (sotto a 10 si è esclusi da ogni sovvenzione).
Fra le piccole realtà danneggiate, mi fa piacere segnalare Isola di Confine, diretta da Valerio Apice e Giulia Castellani, un teatro di comunità che a Marsciano, in Umbria, svolge da molti anni un lavoro prezioso, coinvolgendo centinaia di persone del territorio, bambini, ragazzi e adulti, e al tempo stesso mantenendo in vita prestigiose collaborazioni, dall’Odin Teatret di Eugenio Barba e Julia Varley al Teatro delle Albe di Marco Martinelli e Ermanna Montanari (anch’essi penalizzati).
E tuttavia, come dicevo in apertura, trovo che ci sia in genere un limite grave in queste proteste. Esse se la prendono quasi tutte con gli effetti e molto meno con le cause. Do per scontato che la nuova commissione, nominata da Gennaro Sangiuliano nel 2023 e a maggioranza di destra (4 su 7), tenda a “valorizzare” realtà teatrali più vicine a loro. Ma il problema reale è un altro, molto più grave della cosiddetta ambizione controegemonica, che finora si sta traducendo più che altro in una bulimica fame di poltrone.
Nel decreto ministeriale del 23 dicembre 2024, inerente al triennio 2025-2027, fra i criteri di valutazione lampeggia una formula magica: “congruità gestionale”, articolata in due parametri: 1) il rapporto tra il costo totale delle attività e il numero di spettatori; 2) il rapporto fra gli incassi totali dell’attività e il numero di spettatori.
Con queste due parolette all’apparenza inoffensive il Mic ha compiuto in realtà una scelta sfacciatamente esplicita a favore del teatro più commerciale e contro il “rischio artistico”, che invece è sempre stato (o avrebbe dovuto essere) la ratio dell’intervento pubblico in settori come il teatro o il cinema. Aiutare chi rischia, sostenere l’innovazione, la sperimentazione e la qualità. Quale altro dovrebbe essere lo scopo dell’intervento statale nella cultura? E invece no, oggi premiamo le realtà che hanno un saldo attivo maggiore, insomma il profitto, manco i teatri fossero aziende come le altre, senza quella irrinunciabile differenza che dovrebbe distinguere il fare cultura e arte dal fare scarpe, beninteso con tutto il rispetto per chi fa scarpe.
Ma togliamoci dalla testa che tutto ciò sia iniziato negli ultimi tre anni con l’arrivo del governo Meloni, anche se con quest’ultimo il processo ha subito un’indubbia accelerazione. La tendenza dello Stato a disimpegnarsi dall’appoggio alla ricerca e alla sperimentazione teatrali è molto più antico. Basta andare a rileggersi il lungo j’accuse scritto da Massimiliano Civica e Attilio Scarpellini nel 2015 a commento del decreto ministeriale del 1° luglio 2014, che fra l’altro istituiva i Teatri Nazionali (La fortezza vuota. Discorso sulla perdita di senso del teatro). Osservavano fra l’altro: “Il finanziamento del passivo di bilancio è a termine, ha i giorni contati. Oggi il finanziamento al teatro è inteso dallo Stato come il contributo di avviamento – start-up – delle future piccole aziende teatrali. La vera e ‘monotòna’ indicazione della riforma è: ‘il teatro non è né un interesse né un servizio pubblico, imparate a cavarvela da soli‘. I teatri devono diventare aziende che producono il proprio reddito in regime di libero mercato”. Conclusione quasi profetica: “L’aggettivo ‘commerciale’ ha subìto una traslazione semantica: da parametro economico è diventato categoria estetica. La ‘poetica commerciale’ è oggi lo stile da adottare”.
Parole di dieci anni fa che valgono ancora per capire quel che sta succedendo oggi. C’è da aggiungervi “soltanto” il revanscismo rancoroso di una destra determinata a fare terra bruciata nei settori culturali ritenuti a lei ostili. Praticamente tutti, dal cinema al teatro e alle arti visive, dall’editoria all’università.
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