Il mito Riquelme, campione anche fuori dai campi di calcio. La sua lezione di vita in un libro

  • Postato il 14 maggio 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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Il calcio, come molti sport, può anche essere lezione di vita. Ha un elevato valore educativo, anche se oggi il football ai livelli più alti non è solo sport, è habitat per affaristi, faccendieri e corruttori, che l’hanno ridotto male, almeno in Italia (e i risultati, ad esempio a livello di nazionale, si vedono). È vero, ci sono curve di delinquenti e circola troppo denaro, specialmente nelle tasche di procuratori, di presidenti affaristi e finanziarie, nonché di ragazzini pseudo-fenomeni, ma ogni tanto anche un libro su un campione come Juan Román Riquelme (5 scudetti, 3 Libertadores e una coppa intercontinentale) aiuta a riappacificarsi con i miti e le emozioni dell’infanzia, che ci hanno fatto amare la “pelota”, l’oratorio, il lavoro di squadra e tutto quel che rappresentava.

Riporta al lato più puro ed edificante di questo sport e della nostra vita, perché Riquelme fu campione non soltanto sui campi di calcio. Tutto questo è ossigeno puro anche per me, tifoso del Toro ed ex “pulcino” nelle sue giovanili, ai tempi di Vatta, nonché appassionato giocatore dell’Osvaldo Soriano Football Club, la nazionale italiana di calcio degli scrittori. E pazienza se il legame di sangue, per noi granata amanti di Buenos Aires e dell’Argentina, è con il River Plate, che onora con una banda granata sulla maglia gli Invincibili del Grande Torino. Davanti ai campioni e al Mito ci si inchina volentieri, sempre.

Il libro in questione è Riquelme. Román e la casa del padre (Garrincha edizioni), che Roberto Colombo presenterà al Salone del Libro sabato il 17 maggio, alle 18.15, con Darwin Pastorin e Giovanni Salomone. Imperdibile, per chi ama l’Argentina e Buenos Aires, lezione di vita per tutti e anche di storia: i tifosi del Boca si chiamano “xeneizes”, genovesi, la bocca del porto di Buenos Aires ha nel dna i naviganti genovesi, il loro tempio è la Bombonera, anch’io ho compiuto il mio pellegrinaggio nel tempio del calcio mondiale…

Il campione sudamericano Juan Román Riquelme, “persona pulita fra persone pulite”, attuale presidente del mitico Boca Junior, è stato un giocatore “tan perfecto que asusta”, che spaventa, scrive Roberto Colombo, scrittore e firma di Tuttosport (il padre Franco fu direttore del quotidiano). Specializzato in calcio argentino, Colombo ha studiato a lungo l’icona Riquelme, tra gli idoli nella storia del Boca Juniors, praticamente al pari di Maradona. Racconta, con gustose pennellate sudamericane, la storia e il legame con il club dell'”último diez”: davanti a personaggi di tal genere la passione e la voglia di giocare risorgono intatte, il campo non mente, la meritocrazia viene applicata molto più che nella vita e le brave persone, i campioni, rimangono. La gente, per quanto subornata possa essere, li riconosce. Almeno si spera.

E poi si sa, al tifo non si comanda, la squadra di calcio per la quale tifiamo è impossibile da cambiare: è infanzia, imprinting paterno tribal-parentale, ha radici “nelle stanze più segrete del nostro sangue”, direbbe Federico García Lorca. In tema di “pelota” è impossibile non citare, come fa Colombo a cominciare dall’exergo, scrittori raffinatissimi e di grande tempra anche politica, come Osvaldo Soriano o l’uruguagio Eduardo Galeano (“Vado per il mondo col cappello in mano e negli stadi supplico: una bella giocata”), autore di Splendori e miserie del calcio e di un altro libro famoso e imperdibile, Le vene aperte dell’America Latina, che sullo sfruttamento economico degli Usa ha ancora tanto da dire, nei tempi sbandati del “segaiolo” Milei.

In Splendori e miserie del calcio (ne conservo un esemplare in spagnolo, acquistato in una delle librerie più sontuose al mondo, El Ateneo Grand Splendid di Buenos Aires, un ex teatro in Avenida Santa Fe, nel barrio Recoleta), Galeano cita un aneddoto strepitoso: “Credo che fu Osvaldo Soriano a raccontarmi la storia della morte di un tifoso del Boca Juniors a Buenos Aires. Quel tifoso aveva passato tutta la vita a odiare il River Plate, secondo copione. Ma sul letto di morte chiese di essere avvolto in una bandiera nemica. Così poté esclamare, esalando l’ultimo respiro: «Muore uno di loro»”.

“Así muere uno de ellos”, capito? Anche nell’odio c’è una scala di grandezza. Borges avrebbe apprezzato questo esempio di irriducibilità. Perché lo sport dovrebbe essere un luogo dove si proteggono la passione, le illusioni e i sogni, è una liturgia ovviamente laica, scrive Colombo, “ma celebrata con la sacralità di un’Epifania, di una Natività. Talvolta di una Pasqua. Di resurrezione: perché, anche quando le cose vanno male, sai già che avrai conforto. Non nell’altro mondo, ma proprio in questo qui: las buenas ya van a venir, le gioie arriveranno, statene certi”. Spes, ultima dea.

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Il Fatto Quotidiano

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