Perché un condannato come De Maria usciva dal carcere? Do una risposta basata sul diritto e l’esperienza

  • Postato il 14 maggio 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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Quel che è accaduto a Milano è una tragedia immane. Il dolore per la vittima è immenso. Annichilente. Una vita spezzata, l’ennesima donna, con modalità così truci da lasciare senza fiato. La tentazione di gettare al vento tanti principi che hanno guidato la nostra convivenza pubblica può essere forte. Ma credo tuttavia che il nostro compito sia invece quello di mantenere sempre alta la barra di tali principi, anche nei momenti più difficili quali quello attuale.

Di fronte al dramma appena vissuto, in molti si stanno chiedendo: ma perché quell’uomo usciva dal carcere? Ma perché lavorava all’esterno? Ma la certezza della pena non significa che si debba stare in carcere fino all’ultimo giorno indicato nella sentenza di condanna? Cercherò di fornire una spiegazione utile a rispondere a queste domande, basandomi tanto sulla dottrina quanto sulla mia esperienza diretta. Chiedo al lettore lo sforzo di seguirmi nei ragionamenti senza pregiudizi, al di là dell’emotività del momento. Non è facile mettere da parte i sentimenti di fronte a quanto accaduto, ma il diritto penale, se davvero vuole essere uno strumento di regolamentazione del nostro vivere comune, non può che fondarsi su principi razionali e astratti.

Cominciamo col dire che il modello di esecuzione penale adottato in Italia è quello che prevede la cosiddetta pena flessibile. Non si tratta di un errore del sistema, non si tratta di qualcosa che è andato storto nella prassi. Si tratta piuttosto di una scelta esplicita e consapevole operata a monte dal nostro legislatore. Le leggi italiane prevedono che alla fine del procedimento penale, qualora si giunga alla condanna, il giudice che ha valutato gli eventi e ha emesso la sentenza abbia concluso così il proprio compito e lasci il campo a un altro tipo di giudice. Quest’ultimo si chiama giudice di sorveglianza e ha tra i suoi compiti quello di gestire una pena già irrogata. Che vuol dire gestirla, nel caso della pena carceraria? Vuol dire che, qualora il condannato partecipi attivamente al processo di reintegrazione sociale, il magistrato può far sì che non sconti l’intera pena esclusivamente all’interno delle mura del carcere, bensì per alcuni pezzetti la esegua in modalità alternative. Ciò non significa non eseguire la pena: le modalità alternative non equivalgono alla libertà, sono comunque estremamente controllate, devono seguire un programma molto preciso valutato dal magistrato e sono sottoposte a vigilanza di polizia.

Quando il legislatore italiano optò per il modello di pena flessibile, non lo fece per uno spirito buonista, bensì a seguito di valutazioni molto razionali. Due furono sostanzialmente i ragionamenti che lo guidarono. Il primo: se il detenuto sa che può riacquistare dei pezzettini di libertà anche prima del termine della pena, allora sarà spinto a tenere una buona condotta (un meccanismo che potrebbe essere criticato per tutt’altri motivi, nei quali qui non entriamo). La legge Gozzini fu approvata all’indomani della stagione delle grandi rivolte penitenziarie ed effettivamente vi pose fine. I detenuti, che adesso avevano qualcosa da perdere, smisero di salire sui tetti e mettere a soqquadro le carceri con le loro rivendicazioni (solo le condizioni indecenti di vita interna provocate dalle politiche di questo governo hanno fatto riemergere le proteste carcerarie).

Il secondo motivo: se un detenuto sconta una pena, facciamo per dire, a dieci anni di carcere interamente dentro la propria cella e alla fine del decimo anno si apre il cancello e viene rimesso sulla strada con il sacchetto della spazzatura in mano contenente i suoi soli effetti personali di dieci anni prima, con molta probabilità si rifugerà nel suo ambiente criminale di un tempo, il solo che conosce, e tornerà a fare i reati come unico modo di sostenere la propria esistenza.

Se invece l’istituzione lo aiuta piano piano a riannodare i legami sociali persi, lo inserisce gradualmente nel mondo del lavoro, della formazione professionale, gli fa riprendere i contatti con la famiglia che nel frattempo si è probabilmente richiusa dietro di lui, e via dicendo, le possibilità che non torni a delinquere sono ben più alte. Lo dicono le statistiche ma, per chi non credesse ai numeri, lo dice anche l’esperienza diretta dei tanti detenuti che Antigone ha seguito in oltre trent’anni di lavoro. Se è la sicurezza ciò a cui puntiamo, dovremmo capire che ci conviene enormemente puntare sulle misure alternative al carcere, perché fanno calare il numero dei reati commessi. Non è buonismo, è la nostra convenienza.

Quando Beccaria affermava l’importanza della certezza della pena, voleva dire che la giustizia non doveva presentare lungaggini e inefficienze, né doveva presentare arbitrii (chi è simpatico al sovrano la fa franca). Ma qui non si tratta di scampare la pena, ma proprio di un modello di pena razionalmente pensato fin dal principio in questo modo, ossia un modello flessibile.

“Certo, sei brava a parlare così, mica era tua sorella, tua madre, tua figlia, la tua amica del cuore quella che è stata ammazzata”. Vero. Non lo era. Questa frase si può sempre dire. Ma ha davvero senso? Cosa vuole significare, che quando tocca a noi allora dobbiamo mettere da parte la razionalità e non scegliere il modello che funziona meglio? L’essere umano non sarà mai prevedibile al cento per cento. Se anche la pena carceraria si scontasse sempre e comunque fino all’ultimo giorno all’interno del muro di cinta, un’ora dopo dell’ultimo giorno la persona potrebbe uccidere qualcuno. E quindi? Non facciamo mai più uscire di galera nessuno? Ma con questo ragionamento potremmo andare anche oltre: l’essere umano non è prevedibile al cento per cento e dunque chiunque di noi domani potrebbe fare un delitto. Dunque? Tutti in carcere preventivo?

È evidente che non può essere questa la strada imboccata da un paese democratico. Quel che è accaduto a Milano è qualcosa di drammatico, che giustamente ci ha sconvolto come società. Ma dobbiamo avere la forza di tenere alti i principi razionali del nostro diritto penale.

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Il Fatto Quotidiano

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