Il piano in venti punti su Gaza è una pietra tombale sul diritto internazionale: perché oggi vince la legge del più forte

  • Postato il 9 ottobre 2025
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In questa assurda epoca, il linciaggio mediatico contro Francesca Albanese – che può essere criticata ma non dovrebbe essere delegittimata solo perché non si allinea alla narrazione mainstream – coincide con l’accettazione passiva della fine del diritto internazionale.

Nessuno può mettere in discussione il suo curriculum da esperta in materia. Eppure, la polemica montata da alcuni opinionisti contro di lei, per aver sostenuto che la senatrice Liliana Segre non capisce di diritto internazionale (dati alla mano, Segre non capisce di diritto internazionale), riflette dopotutto una realtà più ampia: la constatazione che le regole comuni tra gli stati stanno svanendo.

Il piano in 20 punti su Gaza è una pietra tombale su convenzioni e diritti che hanno regolato – o avrebbero dovuto regolare – i rapporti tra gli stati. Oggi viene sancito su carta che gli accordi si basano sulla legge del più forte, economica e militare, e non sui principi sanciti secoli fa e codificati negli ultimi cento anni.

Il diritto internazionale resta “soft” per la sua intrinseca incapacità di farlo rispettare, mentre la versione mercantile e piramidale di questi accordi è uno schema pericolosissimo che cancella secoli di civiltà giuridica, contrappesi e procedure equilibrate. Così la voce dei giuristi, dei giudici e della dottrina viene sostituita da interessi di parte, come nel caso della signora Liliana Segre: non giurista, eppure secondo esponenti del governo e alcuni opinionisti la sua voce dovrebbe guidare i discorsi sul genocidio nel mondo del “post-diritto”.

Anche se alcune agenzie Onu e gran parte della dottrina considerano quello a Gaza un genocidio, se gli opinion maker dicono “no”, allora apparentemente è “no”.

Lo stesso vale per la celebrazione odierna del “cessate il fuoco” come evento storico: più una sceneggiata politica che una vera svolta per la pace. L’operazione di marketing funziona così: si propone una tregua unilaterale dove una parte prende tutto, impone la propria immunità sulla devastazione causata e si candida a coprire i costi della guerra, vendendo contratti di ricostruzione e strumenti di sorveglianza come se fossero miracoli di pace.

Il piano di Donald Trump per Gaza, rivelato il 29 settembre 2025 e strutturato in 20 punti, promette Gaza demilitarizzata, un comitato palestinese “tecnico” sotto supervisione internazionale presieduto dallo stesso Trump, e massicci aiuti economici. Ci sono certamente elementi positivi: rilascio di detenuti, assistenza umanitaria e impegni contro sfollamenti forzati e annessioni. Ma come sottolineano 36 esperti legali e per i diritti umani delle Nazioni Unite, queste sono già garanzie imposte dal diritto internazionale, non concessioni straordinarie.

Trump, insomma, in perfetta coerenza con la storia coloniale infinita dell’area, sta vendendo ai palestinesi diritti che già hanno.

Secondo gli esperti Onu, il piano di Trump viola principi fondamentali di legge internazionale per 15 ragioni principali: dalla condizionalità del diritto all’autodeterminazione palestinese, alla sostituzione dell’occupazione con un controllo straniero mascherato, fino all’assenza di meccanismi di responsabilità per i crimini israeliani e al rischio di sfruttamento economico di Gaza.

Sotto l’apparenza di una tregua, la strategia rafforza disuguaglianze e vulnerabilità dei palestinesi, lasciando il futuro della loro terra nelle mani di attori esterni, con il beneplacito di uno show politico globale.

Trump e Netanyahu giocano a chi passa alla storia come “risolutore di guerre” e “storico della pace”, mentre la mobilitazione globale, senza precedenti negli ultimi due anni, continua a difendere i palestinesi. La resilienza di chi lotta per sopravvivere in Palestina ha ispirato milioni di persone, comprese quelle che solo ieri ignoravano o disprezzavano la causa. Mezzo mondo si è “innamorato” dei palestinesi perché, tra i grandi perdenti della storia recente, il loro modello di resistenza e resilienza contro un colosso militare protetto da alleanze internazionali è diventato sinonimo di lotta contro le ingiustizie.

Che la “pace” celebrata dai media e dai politici italiani non sia altro che una tregua temporanea e una sceneggiata da bazar è evidente: la storia vera continuerà a scriverla in Medio Oriente chi ha piede sul suolo, non chi firma carte da lontano. I palestinesi hanno fretta di non morire; Trump e Netanyahu, 79 e 75 anni, di passare alla storia (e all’incasso); centristi ed estrema destra in Europa e i sostenitori incondizionati di Israele di capitalizzare e spegnere in fretta le richieste di giustizia.

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