Il ponte sullo Stretto non è solo una grande opera, ma un gesto politico che incide sulla geografia della giustizia

  • Postato il 22 agosto 2025
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di Giuseppe Pignataro*

Il Parlamento ha da poco rimesso in marcia il progetto del Ponte sullo Stretto. Secondo la società concessionaria, l’investimento aggiornato vale circa 13,5 miliardi di euro, con campata centrale di 3.300 metri (la più lunga al mondo) e conclusione lavori prevista nel 2032; il progetto definitivo è stato approvato dal Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica e lo Sviluppo Sostenibile nell’estate 2025, con copertura finanziaria a valere sulla legge di bilancio 2025 e risorse di capitale versate nel 2023.

Non è solo un’opera di ingegneria: è un gesto politico che incide sulla geografia della giustizia. Come insegnava Henri Lefebvre, lo spazio è prodotto socialmente: le infrastrutture non ‘passano’ sopra la società, la modellano.

Nella retorica pubblica, il ponte ‘libera’ il Sud, integra due mercati del lavoro, canalizza traffici mediterranei. Ma a che condizioni?

Una prima condizione è non mentire sui numeri. Le stime occupazionali citate in questi mesi oscillano: il ministro Salvini ha parlato in passato di ‘mal contati 50mila posti’, mentre in altre occasioni si è evocata la soglia di ‘100mila’. Il fact-checking ha precisato che i valori più alti si riferiscono in realtà a ULA (unità di lavoro annue), non a persone diverse stabilmente occupate; e la stima più cauta indicata dal ministro è 50mila ULA complessive lungo i cantieri, non ‘posti’ permanenti.

La seconda condizione è non isolare il ponte dal resto della rete. Senza un vero salto di qualità su Salerno-Reggio Calabria, alta velocità/alta capacità (AV/AC) e sulla dorsale Palermo-Catania-Messina, l’attraversamento rischia di collegare due estremi che restano lenti al loro interno. Rete Ferroviaria Italiana ha già programmato e finanziato lotti decisivi dell’AV verso Reggio (con nuovi appalti e la galleria Santomarco) e i lavori in Sicilia che riducono i tempi Palermo-Catania e Messina-Catania (cantieri in corso).

Su costi e benefici la discussione è antica. Un’analisi accademica (Brambilla, Politecnico di Milano) mostrava già nel 2003 un Valore Netto Presente negativo in orizzonte trentennale e solo debolmente positivo in scenari ultra-ottimistici a 50 anni; in sintesi, convenienza economica non dimostrata alle ipotesi allora realistiche.

Un dibattito recente ha criticato anche gli aggiornamenti pro-ponte, sostenendo che i risultati positivi dipendono da assunzioni molto generose sul valore della CO₂ e su alcuni parametri di traffico (LaVoce.info, Ramella 2024). È corretto, dunque, ricordare due fatti: (a) le analisi costi-benefici non sono un oracolo infallibile (la stessa Commissione Ue ammette i limiti dei criteri classici per grandi opere multivalore) e (b) la decisione finale è sempre politica, quindi responsabile dei trade-off distributivi.

Costruire un ponte nello Stretto significa scrivere nello spazio un confine nuovo, quello tra natura e volontà. Carl Schmitt direbbe che ogni ordine politico si fonda su una decisione sul confine; Paul Virilio ricorderebbe che ogni accelerazione produce anche nuovi incidenti. Qui l’incidente ‘di riferimento’ è un fantasma storico: il terremoto del 1908, con un numero di vittime stimato intorno a 80.000 tra le due sponde. I progettisti rispondono con la tecnica: il ponte è dimensionato per resistere a un sisma di magnitudo 7,1 (scala Richter), con verifiche aggiornate sul quadro sismo-tettonico; la società concessionaria sottolinea una ‘particolare insensibilità’ del sistema sospeso alle frequenze sismiche dell’area.

La questione, però, non è solo ingegneristica: è politica del rischio. Se spendiamo miliardi su un simbolo, stiamo contemporaneamente mettendo in sicurezza scuole, ospedali e ferrovie esistenti nelle aree a più alta pericolosità? La giustizia territoriale non si misura solo in chilometri di ponte, ma in vulnerabilità ridotta.

Amartya Sen definisce lo sviluppo come crescita di capacità: muoversi, lavorare, accedere ai servizi. Il ponte aumenterà la capacità di chi ha già capitale e mobilità – imprese esportatrici, logistica a lungo raggio – ma rischia di non toccare la povertà di tempo e di opportunità dei pendolari locali se l’offerta regionale resta lenta. La capability di un territorio non è la campata record: è la rete che porta quel record nella vita quotidiana.

Da questo punto di vista, i numeri portuali e ferroviari dicono che l’ecosistema si muove: record di containers a Gioia Tauro, cantieri AV in Calabria, raddoppi e velocizzazioni in Sicilia. Ma il ponte ne è moltiplicatore solo se la rete arriva fino all’ultimo miglio. Non si tratta di essere pro o contro il ponte, ma di rendere trasparenti i vincoli e distribuire equamente oneri e benefici.

Una proposta di policy? Vincolare per legge quote parallele dell’investimento a tre linee complementari e tracciabili: (1) messa in sicurezza antisismica (scuole/ospedali) nei comuni delle due sponde; (2) accelerazione misurabile su linee regionali (obiettivi di minuti risparmiati/anno) su Palermo–Catania–Messina e Reggio–Catanzaro–Lamezia; (3) potenziamento portuale e retroportuale collegato a standard occupazionali e ambientali (con target su traffico portuale e occupazione locale).

In questo modo il ponte cessa di essere monumento e diventa programma. Non si oppone ‘manutenzione’ a ‘innovazione’: si lega l’innovazione al ciclo di cura che la rende giusta e produttiva.

L’Italia può permettersi ambizione con attenzione: un ponte che osa senza dimenticare ciò che sostiene. Oggi disponiamo di fatti essenziali: costi e caratteristiche tecniche, cronoprogramma 2032, gestione sismica progettuale, reti AV e portuali in avanzamento, caveat su occupazione e benefici. Il resto è scelta politica.

Un ponte può essere un record d’ingegneria o un atto di equità. Dipende da come scriviamo, con le opere connesse e le salvaguardie, la nostra idea di futuro nello spazio.

*Professore Associato di Politica Economica – Università di Bologna

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