Il racconto di un giorno di vita quotidiana di Amira, avvocata palestinese, in viaggio per Amman

  • Postato il 21 agosto 2025
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Ho incontrato di recente una donna palestinese, Amira. Avvocata brillante, intelligente, bellissima. Oggi, mentre Israele ha dato avvio all’invasione di Gaza City con l’obiettivo dichiarato di deportare un milione di palestinesi, dopo aver spezzato in due la Cisgiordania — “un altro chiodo sulla bara dello Stato di Palestina”, come ha proclamato Smotrich, il messianico esaltato — e dopo aver massacrato oltre 60.000 civili, il racconto di Amira mi appare ancora più surreale.

Le ho chiesto di parlarmi non della morte e della distruzione, delle tendopoli o dei bambini abbattuti dai proiettili mentre aspettano un tozzo di pane. Ho voluto ascoltare la vita quotidiana. Quella che resiste nonostante tutto.

Questo è il racconto di un viaggio. Un viaggio di routine. Quello di Amira, da Ramallah ad Amman e ritorno.

“Prima di partire — mi ha detto — devo ricordare a me stessa chi sono. Non basta essere palestinese. Bisogna sapere quale palestinese sei, perché il mondo ha stabilito che non siamo tutti uguali. Esistono quattro categorie, quattro destini scritti su una carta.

Io appartengo alla prima: palestinese della Cisgiordania. Ho una carta d’identità verde e un passaporto palestinese. Per attraversare il confine serve anche un lasciapassare verde della Giordania. Ma non ho il diritto di entrare a Gerusalemme.

La seconda categoria è quella dei nostri fratelli di Gaza. Anche loro hanno una ID verde, ma per lasciare la Striscia serve un doppio permesso: da Israele e da Hamas. La loro carta per il confine è blu.

La terza categoria è quella dei palestinesi di Gerusalemme. Possiedono una carta d’identità blu, ma non hanno alcuna nazionalità. Viaggiano con passaporti giordani senza cittadinanza. Possono muoversi dentro i confini della Palestina del ’48, ma non a Eilat o sul Golan.

Infine ci sono i “48ers”, i discendenti di chi non abbandonò la propria casa durante la guerra del 1948. Sono cittadini israeliani, con ID blu e passaporto israeliano. Solo loro, insieme a quelli di Gerusalemme, possono usare l’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv. Due ore da casa mia, ma per me irraggiungibile.

Il mio viaggio inizia con un taxi. Da Ramallah al ponte — il confine — sono tre quarti d’ora, un’ora se c’è traffico. Costo: quaranta dollari. Uno straniero, passando da Gerusalemme, impiegherebbe venti minuti e spenderebbe quasi lo stesso.

Dal lato palestinese il valico apre alle 7:30 e chiude alle 21:30. Venerdì e sabato, solo due ore al mattino. Pago il biglietto dell’autobus: 2,56 dollari. Pago il bagaglio: 88 centesimi a pezzo. Non è ammesso alcun bagaglio a mano, solo una borsa e il computer. Poi ancora: una tassa di 40 dollari, da versare a Israele. Per il privilegio di lasciare la mia terra.

Salgo sull’autobus che porta al lato israeliano. Qui comincia l’attesa. Controlli, perquisizioni, domande. Un ufficiale mi guarda, mi scruta, e in silenzio decide il mio destino. Non so come: un numero, un colore, un codice. Forse un’occhiata basta a stabilire se i miei bagagli saranno aperti, se sarò spogliata fino all’anima in una stanza, o se potrò passare. Non conosco le regole. La gente dice che questi uomini studiano psicologia, che leggono la paura negli occhi. Io non lo so. So solo che oggi passo.

Timbrano il passaporto con il visto d’uscita. Un altro autobus mi lascia alla stazione di Abdo. Ancora biglietti da comprare. Ancora bagagli da recuperare. Poi un nuovo autobus verso la Giordania. Al confine, un altro modulo: indirizzo, motivo del viaggio, data di partenza. Per noi della categoria 1 e 2, l’unico aeroporto possibile è quello di Amman.

Nuovo timbro. Altri 14 dollari di tassa, questa volta alla Giordania. Cerco i bagagli. Di nuovo. Infine un taxi fino ad Amman. Se va bene, tre ore. In estate, quando le scuole sono chiuse, anche sei. Uno straniero non vedrebbe mai il lato palestinese di tutto questo. Entrerebbe direttamente da Israele. Gli costerebbe 30 dollari in meno, e un’ora di tempo.

Il ritorno non cambia nulla. Stessi orari. Stessi biglietti. Stessi controlli. Ancora bagagli da spostare. Ancora un ufficiale che decide se passo o vengo interrogata. Nessuna spiegazione. Nessuna logica.

Esiste un “servizio Vip”. In Giordania, con cinquanta dollari, salti la fila e viaggi in auto comoda invece che in autobus. In Israele, invece, il Vip è un privilegio riservato a pochi: funzionari che collaborano con l’Autorità Palestinese, qualche straniero. Ma neppure per loro è facile. Spesso vengono interrogati per ore, a volte dieci, prima di entrare. E talvolta, alla fine, rimandati indietro.

Se potessi volare da Ben Gurion, il mio profilo di rischio potrebbe essere valutato come “livello 6”: significa spogliarmi completamente. Senza alcuna garanzia di passare.

Mi scuso per questo mal di testa, che forse può apparire un po’ burocratico. Non è che un viaggio di routine. Un viaggio che racconta la nostra esistenza. Benvenuti in Palestina.

Così è. E così, temo, non finirà mai. Ho la certezza che il mio popolo continuerà ad essere piagato dai morti e dall’odio degli estremisti”.

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Il Fatto Quotidiano

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