Il triste compleanno di re Donald. Da impavido condottiero a ‘figlio di papà’ imboscato
- Postato il 17 giugno 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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La prima volta, sei anni fa, gli era andata maluccio. Questa volta – in quella che era stata da lui accuratamente preparata come una regale, definitiva rivincita – gli è andata decisamente peggio. Nel 2019 la parata militare da lui imposta, tra i mugugni dei massimi dirigenti del Pentagono, nel giorno dell’Indipendenza (il 4 di luglio), si era risolta, sotto una pioggia battente, in un mezzo fiasco, O, se si preferisce, in una patetica, mediocre, forzatissima e, a tratti, decisamente ridicola imitazione dell’originale francese (la famosa, storica e molto ‘napoleonica” parata militare del giorno della presa della Bastiglia) che tanto aveva affascinato Donald Trump l’anno prima, quando era andato in visita ufficiale a Parigi, incontrandosi con Emmanuel Macron, giusto nei giorni a cavallo del 14 luglio. Sabato scorso, 14 giugno 2025, quel mezzo fiasco – già peraltro finito nel dimenticatoio della Storia – si è trasformato in una completa e pubblica umiliazione, non solo destinata a restare nel tempo, ma anche ad incidere negativamente – quanto si vedrà – sulla sua marcia verso i poteri assoluti.
Ma cominciamo dall’inizio. La parata militare, con carri armati, missili, cannoni e truppe che, con o senza il passo dell’oca, sfilano di fronte ad un faraonico palco salutando il “Grande ed Amato Leader”, è sempre stata, per Donald Trump, una sorta di “specchio delle mie brame”. Tanto che si narra che, già nel gennaio del 2017, nel giorno della sua prima cerimonia inaugurale, avesse molto insistito – sbattendo però contro il muro unanimemente eretto dal suo Segretario alla Difesa, Mark Esper e dal Chairman of the Joint Chief of Staff, Mark Milley, due personaggi che oggi non esitano a chiamare “a fascist to the core”, un fascista a tutto tondo, l’attuale presidente – per coronare il suo primo ingresso alla Casa Bianca con una pubblica esposizione della forza militare della quale, contro ogni previsione, era diventato “commander in chief”..
C’erano voluti però due anni abbondanti perché Trump, vinta infine la riluttanza degli “sfilandi” – ovvero, dei militari che della parata dovevano esser i protagonisti – finalmente ottenesse il suo “Salute to America” saluto all’America (così Trump aveva battezzato l’evento. Semplici – e molto storicamente solide – le ragioni per le quali quasi tutti, dalle summenzionate autorità militari a gran parte dei media (da Trump già allora bollati come “nemici del popolo”) s’erano fin lì contrapposti alle marziali brame del presidente in carica. Per ormai un quarto di millennio l’”indipendence Day” era stato, e doveva continuare ad essere, un giorno chiamato a celebrare, non la forza militare, ma l’identità di una Nazione fondata su rigorosamente civili principi di democrazia e di eguaglianza – “All men are created equal” – di difesa della vita, della libertà e della “ricerca della felicità”.
Annunciato da Trump con i consueti toni da imbonitore da baraccone – venghino signori venghino ad ammirare “la sfilata della più grande forza armata del Mondo, con tanto di fuochi artificiali e con un discorso del vostro presidente preferito, io” – s’era però risolto in una sorta di grottesco anticlimax. Niente carri armati (grande passione di Trump), per via dei danni che avrebbero provocato alla rete viaria della capitale. E, sotto una pioggia battente, tutto s’era risolto in una molto triste sfilata appena illuminata dalle scie bianche e rosse e blu tracciate lungo un plumbeo cielo da una formazione di caccia bombardieri. Il tutto, peraltro, trasfigurato infine nella propria caricatura dal discorso che il “vostro presidente preferito”, tenne per l’occasione. Fu, quella di Trump, una tiritera senz’anima letta dal teleprompter con la grazia d’un alunno di terza elementare che nulla comprende di quel che va leggenbdo. Ed interrotta soltanto – nell’unico tratto in cui Trump disse qualcosa di suo – da una sesquipedale gaffe. Quella con la quale il presidente magnificò il genio militare di George Washington, capace di conquistare (nel 1781) tutti gli aeroporti nemici ,mettendo fuori gioco l’aviazione di sua Maestà Britannica.
Questa volta tutto doveva essere diverso. Anzi: questa doveva essere “la” volta. E questo per molti motivi. Trump aveva, nel novembre dello scorso anno, riconquistato la Casa Bianca. E questa volta era davvero la “sua” Casa Bianca. Niente “adults in the room”, adulti nella stanza, zavorre del vecchio establishment conservatore. Niente Mark Esper e Mark Milley. Solo fedelissimi e, con loro, quattro frenetici mesi che –- a raffiche di “executive orders”, decreti presidenziali – sono andati delineando, in una costante sfida alla Costituzione, una vera e propria marcia verso i poteri assoluti.
La parata militare doveva, questa volta, essere una “vera” parata con carri armati e pezzi d’artiglieria pesante, liberi di sfasciare, per superiore volontà, il selciato di Washington D.C.. Data dell’evento: non più il 4 di luglio, giorno dell’Indipendenza, ma il 14 di giugno, 250esimo anniversario della creazione della Continental Army, il primo esercito comune delle 13 colonie. Data che – ma guarda che combinazione – coincideva anche con il 79esimo compleanno del Grande leader. Tutto perfetto. Tutto – circostanze, tempi, personaggi – al posto dal protocollo definito. Che cosa, dunque, non è andato per il verso giusto? Perché la parata militare di sabato – o, più precisamente, la militaresca festa di compleanno di Donald Trump – si è trasformata, come sopra scritto e come riportato da qualsivoglia medium di non strettissima osservanza trumpiana, in una completa e pubblica umiliazione?
Per molte ragioni, la prima delle quali, come rammentato da tutte le cronache, è stata la reazione – in California e in tutto il territorio nazionale – alle ultime imprese dell’aspirante sovrano. Prima le retate anti-immigrati con le quali gli agenti dell’ICE (Immigration anf Custom Enforcment) hanno per giorni pestato, arrestato e imprigionato in attesa di deportazione, centinaia di pericolosissimi braccianti, imbianchini, manovali, muratori e delivery boys a Los Angeles e in tutta la California… Per poi rispondere alle proteste per questa barbarie, inviando in loco, nel nome di una “emergenza” che loro stessi avevano ad arte creato, marines e Guardia Nazionale.
Sono stati almeno 4 milioni i cittadini che, in più di 200 città americane, sabato scorso sono scesi in piazza al grido di “no King”, niente re. Un grido che, come una sorta di gigantesca pernacchia, ha sovrastato il rumore dei cingolati che, di fronte ad una molto diradata e molto poco entusiasta massa di popolo, andavano sfilando nella capitale (per capire quanto male stessero andando quella festa di compleanno, bastava un’occhiata, al centro della gigantesca “tribuna delle autorità” la molto accigliata espressione del festeggiato).
Ed è accaduto – volendo entrare nei dettagli – anche di peggio. Non si sa per errore o per consapevole volontà di scherno – chiamiamolo un atto di resistenza interno – tra i motivi musicali che hanno accompagnato la sfilata è ripetutamente risuonato un famoso rock degli anni della guerra in Vietnam. Si tratta di “Fortunate Son” dei Creedence Clearwater Revival (CCR), sferzante protesta contro la guerra e, soprattutto, contro i giovani bene che quella guerra evitavano grazie al denaro del padre. “Ain’t me. Ain’t me” – recitava quella canzone – non sono io il “figlio fortunato del miliardario”.
Figlio fortunato di un miliardario fu invece, com’è più che noto, proprio Donald Trump, che ai tempi, quando era 22enne, evitò la leva per il Vietnam grazie a speroni ossei, “bone spurs”, nei calcagni. Speroni che nessuno ha mai visto, ma che gli vennero diagnosticati da un medico che, guarda caso, era anche inquilino in una dei molti complessi edilizi di proprietà del ricchissimo padre. “Questa canzone – disse nel 2020 John Fogerty, il musicista che la scrisse – sembra proprio fatta su misura per Donald Trump”.
Dopo la pernacchia, insomma, uno sputo nell’occhio. Salito sul palco come un invincibile ed ardito condottiero, Donald Trump ne è disceso, mentre il grido “No King, riecheggiava in tutto il Paese, come un figlio di papà renitente alla leva, un privilegiato imboscato. Nudo, come il re della celeberrima (e molto abusata in chiave metaforica) favola di Andersen. Nudo e sputacchiato, prima ancora d’esser incoronato. Tutto questo non frenerà, probabilmente, la sua marcia verso il potere assoluto. Ma nessuno gli potrà restituire questa “storica” festa di compleanno andata in malora. E comunque finirà la storia, sarà così – nudo e sputacchiato – che domani gli toccherà sedersi sul trono.
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