Il voto a Genova in mano alla politica politicante. Come siamo arrivati fino a qui
- Postato il 23 maggio 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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L’avanzata irresistibile della destra in un’area di antica tradizione progressista – quale Genova, città medaglia d’oro della Resistenza, e tre quarti di Liguria (il Ponente imperiese ha sempre fatto storia a sé) – discende direttamente dall’arroganza e dall’incompetenza di una sinistra locale, illusa che durassero in eterno le derive grazie alle quali colonizzava gli organigrammi delle istituzioni locali. Insomma, una serie ininterrotta di conferme elettorali aveva radicato nella nomenklatura di partito la mentalità del rentier; mentre la qualità del personale politico declinava in puro professionismo del consenso, subendo le sirene affaristiche e collusive.
Un primo campanello d’allarme era suonato nel 1983 con lo scandalo Teardo: il presidente di Regione Liguria condannato dalla Corte d’Appello a 12 anni e 9 mesi per associazione a delinquere, concussione continuata, peculato ed estorsione. Vicenda in cui erano emersi aspetti fino ad allora inediti: la tessera P2 intestata a questo Alberto Teardo, i legami col suo grande elettore Peppino Marciano; boss della ‘ndrangheta ligure. Si parlò già allora di “mele marce”, eliminate le quali tutto poteva continuare come prima.
Intanto la vecchia classe dirigente del Dopoguerra, che pure si era spartita politicamente Genova (al PCI il Ponente delle fabbriche e al city-boss DC Paolo Emilio Taviani la polpa del centro finanziario e il Levante residenziale) veniva sostituita da un’infornata di giovani turchi; con qualche incidente di percorso: Antonio Canepa, fiduciario locale del Nuovo PSI craxiano, moriva d’overdose nel marzo 1983 a soli 43 anni; l’altro astro nascente Claudio Burlando – post-comunista all’orecchio di Massimo D’Alema – incappava pure lui in qualche inciampo edilizio nel maggio 1993 (arresto da vice-sindaco e assessore all’urbanistica per tangenti relative alle celebrazioni colombiane). Ma il Burlando – vera salamandra politica – riprendeva presto l’ascesa come ministro dei Trasporti dal 1996 al 1998, poi presidente di Regione Liguria per due mandati (2005-2015). Pulpiti che gli consentivano di teorizzare, nelle assemblee provinciali di partito, la politica “come scambio negoziale” e allevare una generazione di spregiudicati cloni, appiattiti sul modello del maestro.
La rottura dell’incantesimo ligure arrivò con la fine del regno burlandiano. Mentre il presidente uscente puntava sull’elezione della sua protetta Raffaella Paita (futura valchiria di Renzi, che aveva sconfitto alle primarie l’usato sicuro Sergio Cofferati grazie al robusto apporto di “truppe cammellate”), ecco il dente d’arresto rappresentato dalla candidatura di un “signor nessuno”: il giornalista Mediaset Giovanni Toti, messo in pista da Silvio Berlusconi. Una candidatura presa di sottogamba dalla proterva Raffaella detta “te spiezzo in due”, tanto da farle dichiarare che “non c’era gusto a vincere senza avversari”, che invece le rifilò una sonora sconfitta.
Arriva così il lungo regno totiano; che colonizza da destra l’intera regione, grazie anche ai metodi scuola biscione: business, fashion ed entertainment. In particolare la trasformazione dell’affarismo burlandiano – in particolare mattone, svendita della sanità e intermediazioni concussive – da artigianale a industriale; con la creazione della Fondazione Change, la cassa con cui alimentare la macchina da guerra elettorale. Prima fra tutte la campagna che eleggerà nel 2017 a sindaco di Genova Marco Bucci, sedicente manager all’americana avendo lavorato nella Kodak di Rochester per alcuni anni; anche se non si sa a far cosa. Dunque una rete di potere in cui finiscono avviluppati pure dirigenti del Pd, comprati un tanto al chilo con i soldi di un altro cardine della Destra: l’Autorità Portuale di Genova. Sistema colpito a morte dalla magistratura con il Totigate del maggio 2024 e i domiciliari per il Toti.
Così si arriva al rinnovo in Regione e la sinistra candida un suo collaudato cacicco – Andrea Orlando, il funzionario cresciuto nei corridoi del PCI spezzino che ha collezionato poltrone romane – per la missione NON impossibile di battere la destra sgarrettata dai magistrati. Eppure Bucci vince e diventa il nuovo presidente di Regione.
Ora si tratta di preparare le elezioni per il nuovo sindaco di Genova. Ma il sinedrio Pd continua a girare a vuoto per mesi, fino a quando da un cilindro sospetto renziano salta fuori il nome sconosciuto: Silvia Salis, vice-presidente del Coni dopo un passato da lanciatrice del martello; una quarantenne in carriera nata a Genova ma cresciuta nel generone romano, perfetta per operazioni di marketing d’immagine. Col particolare che se apre bocca esprime le stesse idee di Marco Bucci: grandi opere, priorità al mondo degli affari, politiche alla Tony Blair trent’anni dopo. Un perfetto equilibrio tra Calenda, Renzi e Forza Italia che dovrebbe scaldare il cuore al popolo genovese, ormai per metà in fuga nel non-voto.
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