In Veneto un fotografo e uno scrittore raccontano la montagna attraverso un progetto itinerante

  • Postato il 28 luglio 2025
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  • Di Artribune
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Nel momento in cui l’uomo si ritrae dal mondo per contemplarlo, il mondo comincia a dissolversi”. Così Walter Benjamin descriveva il paradosso della fotografia nella sua Piccola storia della fotografia. Ma proprio in quel dissolversi — in quell’istante in cui l’immagine trattiene il tempo mentre il reale scivola via — si apre uno spazio di verità. Non una verità oggettiva, ma una risonanza, una profondità, un senso. È in questo spazio che si muove Dolomiti. Un paesaggio tutelato.
La mostra è una sinfonia a due voci: da un lato, la fotografia di Manuel Cicchetti (Milano, 1969), capace di ascoltare il paesaggio più che di rappresentarlo; dall’altro, la scrittura di Antonio G. Bortoluzzi (Alpago, Belluno, 1965), che restituisce alle valli e alle cime dolomitiche la loro dimensione di racconto, di storia, di civiltà. Insieme, costruiscono un dispositivo culturale che interroga il nostro modo di guardare la montagna — e più in generale il paesaggio italiano — in un tempo in cui tutto sembra ridursi a superficie e consumo.

La fotografia di Manuel Cicchetti come forma di ascolto

Nelle immagini di Cicchetti la montagna è spogliata di ogni retorica. Nessuna seduzione da cartolina, nessuna grandiosità da manifesto turistico. Ogni scatto è un gesto di attenzione: alle luci che sfiorano le rocce come mani invisibili, alle ombre che abitano le pieghe del territorio, alla presenza-assenza dell’umano, che si intuisce più che vedersi. Le Dolomiti diventano così un organismo vivo, un paesaggio in cui ogni piega è una memoria geologica, ogni fenditura racconta una storia sedimentata.
Ciò che emerge è il legame profondo tra la materia e il tempo, tra la natura e la cultura. Le immagini sono frutto di un lavoro paziente e meditato, costruito in un anno di scatti nei nove siti delle Dolomiti patrimonio UNESCO, un viaggio dentro le stagioni, i silenzi, la luce e l’impronta invisibile dell’umano.
Un arcipelago di vette, complesso e maestoso, tanto imponente quanto fragile, le Dolomiti attraggono lo sguardo alla meraviglia e all’incanto. Un mosaico naturale unico e prezioso, tra i più straordinari al mondo. Non solo un paesaggio da ammirare, ma un patrimonio da custodire con cura, rispetto e responsabilità.

Il volume “Dolomiti. Il paesaggio tutelato” per raccontare il rapporto tra paesaggio e presenza umana 

Il volume Dolomiti. Un paesaggio tutelato, edito da Marsilio Arte con Regione Veneto, racconta questo paesaggio attraverso il suo intreccio con la presenza umana. Una convivenza delicata, consapevole e possibile. Le fotografie di Cicchetti e le parole di Bortoluzzi restituiscono l’equilibrio tra maestosità naturale e presenza umana, in un viaggio visivo e letterario alla scoperta di luoghi vissuti, plasmati e custoditi nel tempo.

L’estetica del trattenere: tra visione e sparizione

Lo sguardo fotografico di Cicchetti non aderisce né al documento né all’estasi. Le sue Dolomiti non sono mai semplicemente “lì”, disponibili o oggettive: sono attraversate da una forma di sottrazione, da una sospensione visiva che obbliga l’osservatore a fermarsi, a rileggere l’immagine come campo di tensioni. Il suo stile si muove al confine tra un lirismo controllato e una volontà di distanziamento, nessuna teatralità, nessuna enfasi spettacolare, ma una composizione rigorosa, quasi musicale, che riduce l’immagine all’essenziale. Ne scaturisce una fotografia che sembra respirare al ritmo stesso del paesaggio: lenta, profonda, stratificata.

L’estetica silenziosa di Manuel Cicchetti

Cicchetti lavora per sottrazione, ma non in senso minimalista. La sua è un’estetica della densità silenziosa, ogni inquadratura è un nodo di relazioni — tra luce e pietra, tra tempo e forma, tra verticale e orizzontale. Le immagini sono segni che vanno oltre la descrizione geologica. Sono tracce di una scrittura più antica, in cui l’umano non è protagonista, ma parte di un sistema più vasto che lo comprende e lo supera. In questo senso, le fotografie si inseriscono in una tradizione post-romantica, erede della pittura paesaggistica ottocentesca, ma disillusa rispetto al sublime come conquista o dominio. La montagna non è scenario eroico, ma luogo etico, spazio di misura, geometria fragile tra ciò che resta e ciò che scompare.

Una fotografia che richiede di essere “letta”

La scelta di un colore non saturato, “in dietro” rimanda alla commedia italiana degli anni ’50-’60, definendo così l’intera poetica del lavoro dove l’attenzione si sposta dal realismo al pensiero che ha generato l’immagine. Un cambio di paradigma, non solo nella scelta della cromia ma soprattutto nella costruzione dell’immagine, che richiama i toni calmi e delicati di Luigi Ghirri e Giovanni Chiaromonte. Non si tratta solo di togliere, ma di evocare un’altra temporalità, una distanza critica, come se ogni immagine chiedesse non di essere vista, ma letta. Cicchetti non fotografa il paesaggio, ma l’idea di paesaggio che la modernità rischia di dimenticare. Un’idea fatta di lentezza, relazione, memoria geologica e precarietà. In un’epoca dominata dall’immagine veloce e performativa, il suo lavoro è un gesto politico di resistenza: un invito a tornare a guardare con attenzione, a pensare la fotografia come forma di coscienza. Le foto di Cicchetti raccontano piccole storie: uno sguardo italiano ad uno scampolo del nostro territorio.

La parola di Antonio G. Bortoluzzi come geografia del vissuto

A completare la narrazione visiva, le parole di Antonio G. Bortoluzzi non illustrano, ma raccontano. E nel racconto, il paesaggio si fa esperienza. “Ancora oggi le mani di certi anziani al lavoro nelle valli dolomitiche mostrano gli stessi segni d’usura: calli, cicatrici, pelle secca, nocche sporgenti, unghie nere e spezzate. Sono l’espressione di uno stare al mondo”, scrive. In quelle mani si condensa una filosofia della fatica e della continuità, un sapere incarnato che si tramanda più per gesti che per parole.

Passo Giau
Passo Giau

Il paesaggio come soggetto nella visione di Cicchetti e Bortoluzzi

È qui che il paesaggio cessa di essere oggetto e diventa soggetto. Un soggetto collettivo, stratificato, in cui la montagna è al tempo stesso madre e maestra. La sua asprezza educa al limite, alla misura, alla responsabilità. Per questo, scrive Bortoluzzi, «finché vi è unità tra corpo umano e montagna, non c’è caduta». Una lezione etica e politica, in tempi di crisi ecologica e spaesamento simbolico.

Un paesaggio da tutelare, ma soprattutto da comprendere

Il titolo della mostra, Un paesaggio tutelato, richiama la dimensione giuridica del riconoscimento UNESCO. Ma ciò che emerge è qualcosa di più profondo: la necessità di tutelare non solo i luoghi, ma le forme di vita che li abitano. Pratiche, narrazioni, saperi che danno senso allo spazio.
In questa prospettiva, la mostra si configura come un dispositivo critico: un modo per rimettere al centro il paesaggio come bene comune, come eredità culturale e come progetto per il futuro. Non è un caso che la Regione Veneto abbia sostenuto un’iniziativa che non si limita a celebrare le Dolomiti, ma le interroga nella loro dimensione viva e trasformativa.

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Domenico Ioppolo

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Informazioni

La mostra organizzata intorno a cinque parole chiavi: Mirabilia, Ascendere, Limite, Persistenza, Segni, sarà visitabile:
Dal 10 luglio al 31 agosto a Cortina d’Ampezzo (mostra diffusa: Museo Rimoldi, Alexander Hall, Libreria Sovilla, Savoia Hotel)
Dal 3 ottobre al 2 novembre a Belluno (Centro Culturale Crepadona)
Dal 3 novembre al 6 gennaio a Vittorio Veneto (Sala Civica e Torre dell’Orologio)
Il libro sarà disponibile dal 25 luglio.

L’articolo "In Veneto un fotografo e uno scrittore raccontano la montagna attraverso un progetto itinerante" è apparso per la prima volta su Artribune®.

Autore
Artribune

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