Iperlavoro e usura psico-fisica: il Tribunale di Napoli fa un passo decisivo nel riconoscimento del danno
- Postato il 9 luglio 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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di Domenico Tambasco *
Con la sentenza n. 4811 del 16 giugno 2025, il Tribunale del lavoro di Napoli compie un significativo passo in avanti nel riconoscimento del danno da usura psico-fisica, estendendone la tutela anche a rapporti di lavoro di breve durata. Si tratta di una decisione che si inserisce in un quadro giurisprudenziale sempre più attento alla dimensione organizzativa del lavoro (art. 2086 c.c.) come fonte autonoma di rischio per la salute psicofisica del lavoratore.
Il caso riguardava una guardia giurata assunta a tempo determinato e impiegata per soli sette mesi in condizioni di oggettivo iper-lavoro: turni giornalieri fino a 13-14 ore, assenza sistematica del riposo settimanale, preavvisi minimi (o assenti) sull’organizzazione dei turni, comunicazioni informali via messaggistica istantanea. Un contesto che il Tribunale ha definito “stressogeno” e che ha riconosciuto lesivo dei diritti fondamentali alla salute e al riposo, tutelati non solo dalla Costituzione, ma anche dall’art. 2087 c.c., norma chiave in materia di sicurezza e tutela dell’integrità psicofisica del lavoratore.
Il danno da usura psico-fisica come danno “in re ipsa”
L’aspetto di maggior rilievo della pronuncia risiede nel riconoscimento della risarcibilità del danno da usura psico-fisica anche in assenza dell’accertamento di una specifica patologia medico-legale e a prescindere dalla durata del rapporto. Il giudice ha infatti qualificato tale danno come “in re ipsa”, ritenendo sufficiente, ai fini della prova, la semplice dimostrazione dell’esistenza di turni e carichi lavorativi eccedenti i limiti legali e contrattuali, in conformità con una giurisprudenza ormai consolidata (ex multis, Cass. 21 luglio 2023, n. 21934; Cass. 15 luglio 2019, n. 18884; Cass. 4 agosto 2015, n. 16665; Cass. 25 ottobre 2013, n. 24180). In altri termini, il danno non deve necessariamente manifestarsi con sintomi clinicamente rilevabili: il solo superamento sistematico dei tempi di lavoro massimi, senza adeguati riposi, è di per sé idoneo a integrare una lesione giuridicamente rilevante.
Si tratta di un orientamento che trova conferma in recenti arresti della Corte di Cassazione, che hanno valorizzato l’autonomia concettuale del danno da usura psico-fisica rispetto al danno biologico (cfr. Cass., 14 luglio 2015, n. 14710), e ne hanno riconosciuto il fondamento costituzionale nei diritti inviolabili alla salute, al riposo e alla dignità personale.
Nella prospettiva tracciata dal Tribunale partenopeo, l’obbligo datoriale ex art. 2087 c.c. assume una portata oggettiva: non è rilevante l’eventuale consenso del lavoratore alla prestazione straordinaria, né tantomeno la sua iniziativa personale. La responsabilità del datore si fonda sul solo fatto di non aver impedito – attraverso una adeguata organizzazione – l’esposizione del dipendente a ritmi di lavoro lesivi, anche quando questi siano formalmente retribuiti o volontariamente accettati.
Lo stesso impianto motivazionale della sentenza richiama l’esigenza di superare approcci fondati sull’idea di una responsabilità individuale o sul principio “volenti non fit iniuria”, oggi considerati recessivi dalla giurisprudenza più evoluta. Al contrario, l’interpretazione evolutiva dell’art. 2087 c.c. sposta oggi il baricentro sulla “colpa organizzativa” del datore, su cui incombe un dovere di prevenzione e protezione assoluto, la cui violazione è sufficiente – laddove ne derivi un danno – a fondare l’obbligazione risarcitoria.
Un risarcimento (ancora) modesto
Nonostante l’accurato accertamento istruttorio, il Tribunale ha quantificato il danno in modo contenuto (circa 1.500 euro), adottando un criterio equitativo fondato sul valore del 30% delle ore straordinarie eccedenti la soglia massima mensile. Si tratta di un metodo ancorato al parametro retributivo che, se da un lato consente una liquidazione agevole, dall’altro rischia di sottovalutare il pregiudizio subito nella sua dimensione più propriamente esistenziale. In questa direzione si muovono invece, ad esempio, recenti decisioni del Tribunale di Milano, che hanno adottato le Tabelle per la liquidazione del danno non patrimoniale, valorizzando il dato soggettivo della sofferenza psico-fisica (Trib. Milano, 25 giugno 2024, n. 3191).
L’ambiente di lavoro stressogeno come fattore di rischio
La sentenza napoletana si inserisce, più in generale, in un processo di rielaborazione giurisprudenziale del concetto di ambiente di lavoro nocivo e stressogeno. Negli ultimi anni, infatti, la Corte di Cassazione ha progressivamente sganciato la tutela contro lo stress lavorativo dalle categorie tradizionali del mobbing o dello straining, per approdare a una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2087 c.c., capace di cogliere le disfunzioni organizzative nella loro obiettiva e autonoma capacità di produrre danno alla persona.
L’assenza di riposo, la comunicazione estemporanea dei turni, la compressione della vita privata, la costante imprevedibilità del tempo lavorativo non costituiscono solo violazioni formali del contratto: sono, prima ancora, segnali di un assetto organizzativo disfunzionale, suscettibile di produrre usura, logoramento e sofferenza. In questa prospettiva, la responsabilità del datore non si fonda su un comportamento individuale illecito, ma sulla complessiva inadeguatezza sistemica dell’organizzazione aziendale a garantire un lavoro sostenibile e rispettoso della persona.
La pronuncia del Tribunale di Napoli contribuisce così ad alimentare un più ampio mutamento culturale, che impone una riflessione sul modo in cui vengono oggi gestiti tempi, carichi e ritmi lavorativi. Anche un contratto breve, dunque, può lasciare ferite profonde. E, finalmente, può pretendere giustizia.
*Avvocato giuslavorista in Milano, esperto in mobbing, straining e whistleblowing. Qui il suo profilo Linkedin
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