Israele mira a occupare Gaza già da anni: perché nessuno in Occidente vuol metterlo in discussione
- Postato il 13 agosto 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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di Alessia Manera
La dichiarazione del gabinetto di Netanyahu sulla volontà di occupare militarmente Gaza, che segue quella di annessione della Cisgiordania, stupisce solo quanti hanno finora creduto alla favola che ci raccontano da quasi 22 mesi: ovvero che ciò che stiamo vedendo oggi a Gaza (e più in generale in tutta la Palestina occupata) sia una risposta al 7 ottobre.
E non solo perché bombardare con ordigni incendiari scuole Onu e tendopoli, bruciando vivi uomini, donne e bambini, gettare in fosse comune medici e infermieri, uccidere giornalisti non fosse già evidentemente qualcosa che andava oltre ogni possibile idea di “risposta” a un attacco. Non solo perché sessantamila morti accertati (e 400mila stimati) a fronte dei 1500 del 7 ottobre sono una risposta che è dalle 12 alle 80 volte peggio delle Fosse Ardeatine. E neanche perché, secondo relazioni e inchieste riportate dallo stesso New York Times, una parte dei morti del 7 ottobre è stata vittima dello stesso “fuoco amico” israeliano, che avrebbe preferito uccidere i propri cittadini piuttosto che lasciarli nelle mani della resistenza palestinese.
Ma perché l’occupazione di Gaza è stata decisa anni fa: già nel 2014 l’operazione Protective Edge doveva servire a rioccupare militarmente la Striscia. Ma il casus belli di allora, il ritrovamento dei corpi di tre coloni morti sulle colline di Al-Khalil (Hebron in ebraico), non aveva giustificato davanti all’opinione pubblica i morti che un’operazione di terra richiedeva. I morti militari israeliani ovviamente, perché anche allora i morti civili palestinesi si erano contati in termini di migliaia su poche settimane di operazione.
Gaza e la Cisgiordania sono state la sperimentazione di due diverse strategie di pulizia etnica e genocidio: da un lato Gaza, con la scusa di elezioni (quelle del 2006) non andate come voleva l’Occidente, è stata “liberata dalle colonie” e posta sotto assedio. Dall’altro la Cisgiordania, formalmente con più libertà di movimento e sotto il governo fantoccio dell’Anp, è stata colonizzata, frammentata, resa inerme. Sembra paradossale, ma la Striscia pur negli stenti e nei bombardamenti continui (che si sono avuti quasi ogni giorno in questi 18 anni di assedio), manteneva una propria organicità e indipendenza. Le famiglie vi si spostavano all’interno, cosa praticamente impossibile per alcuni villaggi e città della Cisgiordania, dove anche fare pochi km significa checkpoint e permessi.
Ma la possibilità di muoversi, di incontrarsi, significa anche la possibilità di organizzarsi e di resistere. Quello che alla Cisgiordania non è stato permesso. Quello che non si vuole più permettere a Gaza.
Le affermazioni del governo Netanyahu sono la logica conseguente di un regime (quello sionista, non solo dell’ultradestra ortodossa) che ritiene tutta quella terra come propria e che la vuole libera da ogni altra soggettività che non sia quella sionista. I palestinesi possono vivere nelle riserve, o nelle “città umanitarie” che è lo stesso modo di chiamarle nel 2025. Spazi sempre più ridotti e tendenti alla scomparsa. Neanche all’assimilazione, perché a differenza delle altre forme nazionaliste che prevedono un qualche grado di assorbimento dell’alterità quando quest’ultima accetta di ripudiare la propria storia e cultura di provenienza, lo stato sionista prevede per sua stessa autodefinizione (quella di “Stato degli Ebrei”, come da riforma costituzionale del 2018), l’espulsione di ogni differenza. Ed ebreo/a si nasce, non si diventa.
Ma Israele è anche altro: è il simbolo di un potere coloniale e suprematista, proprio della cultura europea e per derivazione della cultura occidentale, che non vuole accettare di morire. Che rivendica come diritto di nascita il saccheggio delle terre e delle vite altrui. È il simbolo di un Occidente che si ritiene collettivamente popolo eletto, detentore della verità rivelata da imporre agli altri: d’altronde noi esportiamo la democrazia, la libertà, i diritti. E per questo gli altri popoli ci devono essere grati. Chissenefrega se la libertà, la democrazia e i diritti hanno il costo della devastazione delle loro terre, dello sfruttamento delle loro risorse, della cancellazione delle loro culture, dell’annientamento di ogni forma di autodeterminazione. Quello è un “prezzo giusto” per ciò che gli offriamo. E quante e quanti lo rifiutano sono terroristi per definizione, selvaggi ignoranti nel migliore dei casi. Perché chi mai sano di mente rifiuterebbe il progresso (che ovviamente è sempre rappresentato dal punto in cui noi siamo, quale che sia lo svolgimento temporale)?
Per tutti questi motivi, per la matrice identitaria che il sionismo ha con la peggior tradizione culturale europea e occidentale, quasi nessun governo da noi ha davvero intenzione di mettere in discussione Israele. Quelli che lo fanno condannano Netanyahu, le “derive” del suo governo. Ma nessuno mette in discussione Israele come progetto coloniale o il sionismo come ideologia razzista e suprematista. Perché sarebbe accettare di mettere in discussione i propri privilegi. Ancora prima, vorrebbe dire riconoscerlo che il nostro mondo è un privilegio costruito sulla distruzione sistematica dei diritti di altri (quando non sui diritti degli stessi popoli europei e occidentali). E nessuno ha voglia di farlo.
Peccato che la storia ci abbia insegnato che tutti gli imperi finiscono. E sarebbe meglio scendere dal piedistallo autonomamente invece che farselo frantumare sotto i piedi da chi lo vede come quello che è davvero: uno strumento di oppressione.
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