La causa dell’impasse Cinquestelle si chiama Pd, ancora nelle mani dei cacicchi

  • Postato il 20 ottobre 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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Non è facile decifrare cosa passi per la testa di un soggetto politico tutto pancia quale il Movimento Cinquestelle, in attesa che dimostri l’avvenuta acquisizione di un’effettiva capacità raziocinante (magari formalizzata sgravandosi dal vincolo identitario dell’attuale denominazione pentastellata, più adatta a una balera romagnola che a un partito). La liberazione dal tuttora persistente lascito confusionista da parte del padre fondatore: il cacciaballe Beppe Grillo.

Questo per dire che ancora una volta, nell’odierna, ennesima, tempesta interna al M5S, risulta problematico districarsi e arrivare al nocciolo della questione in ballo.

Perché nella bega tra la vice-presidente Chiara Appendino e il presidente Giuseppe Conte l’oggetto del contendere non sembra assolutamente quello dichiarato: il tentativo auto-assolutorio del vertice politico davanti ai risultati elettorali sconfortanti ottenuti nelle ultime amministrative contestato dall’Appendino. Stante che l’ex sindaca di Torino è l’ultima a poter muovere un tale addebito, visto l’esito fallimentare del Movimento nella consultazione piemontese, svoltasi sotto la sua supervisione.

Semmai, ricorrendo a un’ermeneutica realistica, si potrebbe dire che il succitato oggetto del contendere nasce da un’impasse irrisolta relativa alla questione alleanze, in cui si evidenzia una profonda differenza di cultura politica tra il moroteo pugliese Conte e la sua contendente, in cui permangono tracce dell’integralismo isolazionista proto-grillino: lo stallo creato da una legge elettorale che impone l’obbligo di fare alleanze se si vuole provare a vincere le elezioni e la natura dell’alleato senza alternative – il Pd – che risulta indigeribile a buona parte della base cinquestelle. Dunque, l’alternativa tra restare all’opposizione a tempo indeterminato o spingere sull’Aventino la maggioranza dei propri elettori riducendosi all’insignificanza numerica.

Da qui la gestione altalenante e sovente contraddittoria – tra la rottura e la collusione – del dialogo con Elly Schlein da parte del leader 5S. E lo scrivo con il rispetto che nutro per chi lo considera il miglior presidente del Consiglio della Seconda Repubblica (anche se – va detto – i concorrenti per tale primazia erano e sono di livello bassissimo: dall’orrido Berlusconi, limitrofo alla criminalità organizzata, e l’orrida arpia ululante Meloni dell’attuale solidarietà a Sigfrido Ranucci già delegittimato oltre la soglia della persecuzione).

Ma tornando a Conte, da ligure mi sono sentito vicino alle critiche appendiniane assistendo alle sue scelte sconcertanti per cui alle ultime regionali si imponeva al candidato presidente Andrea Orlando di espellere dalla coalizione rimasugli renziani, per poi digerire la successiva candidatura a sindaco genovese di una palese renziana. E vedremo presto se la candidatura di Roberto Fico non finirà prigioniera della banda De Luca.

Il fatto è che questa impossibile quadratura del cerchio politico dall’opposizione nasce altrove ed è fuori controllo da parte di chi gestisce il Movimento. Perché la colpa di questo quadro bloccato – se di colpa si può parlare – è della segretaria Pd, della sua promessa tradita di epurare il partito dai cacicchi per poi venirne presa in ostaggio, tanto da contrarre una vera e propria “sindrome di Stoccolma”. Insomma la trappola si chiama “natura del Pd”, tuttora controllato dalla genia degli Orlando e Franceschini, pronti a mimetizzarsi nelle pieghe dei “campi larghi”, come mera sommatoria di sigle propugnato dai terribili semplificatori, da Bersani a Bettini quanto aborrito da masse in fuga dal voto.

A proposito del vizio d’origine che azzera ogni speranza di scalzare la destraccia, mi aprì gli occhi tanti anni fa un mio concittadino: un singolare prete a cui della religione non poteva fregarne di meno quanto tossicodipendente del potere politico, di nome Gianni Baget Bozzo, viaggiavamo sul volo tra Genova e Roma e parlavamo ovviamente di attualità politica. Ossia della fusione tra ex comunisti e la sedicente sinistra DC reduce dall’occupazione dello Stato che diede origine al Pd. Ricordo di avergli detto: “mi sembra che i cuochi della politica stiano preparando uno spezzatino tra un cavallo (l’ancora grosso e strutturato PCI) e una piccola allodola, con il risultato che il gusto del pasticcio avrà sapore equino” “E qui che ti sbagli” rispose il Don. “La superiore tecnologia del potere dell’allodola finirà per divorare tutto il resto”. Così avvenne.

Cinquestelle compreso?

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Il Fatto Quotidiano

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