La doppia morale degli influencer: quando il moralismo nasconde turpitudini

  • Postato il 3 novembre 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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Il filosofo Friedrich Nietzsche definiva i moralisti come coloro che, non potendo razzolare male, si attrezzano per predicare fin troppo bene. È la prima cosa che mi è venuta in mente leggendo del gruppetto di sedicenti femministe radicali che – stando a quanto riferito per prima da Selvaggia Lucarelli su questo giornale e alle attività della magistratura inquirente – si sarebbero distinte per comportamenti e frasi diametralmente opposte al politicamente corretto e al rispetto delle minoranze discriminate o perseguitate sulla cui difesa hanno pur costruito la propria notorietà.

Non è la prima e certamente non sarà l’ultima volta che questi nostri tempi sciagurati e mediocri ci mettono di fronte a figure patetiche e, tutto sommato, dannose come quelle summenzionate. Ho scritto “dannose” perché trattandosi di influencer, la loro appunto influenza – economica, ideologica, di costume – è comunque rilevante, come dimostrò il caso della regina di queste nullità di successo, Chiara Ferragni.
Ma ciò su cui voglio concentrare la mia attenzione, comunque a partire da tale fatto di cronaca, è altro. Questo altro non riguarda tanto il fatto che la pratica psicoanalitica, la teoria filosofica e infine la Storia ci insegnano che proprio dove si staglia in bella vista il fanatismo moralista, là sotto si nascondono le turpitudini e l’immoralismo peggiori; quanto piuttosto che il tipo di società mediatica in cui ormai ci troviamo immersi richiede proprio quel tipo di moralismo se si vuole incrementare il numero dei propri follower, delle visualizzazioni dei propri contenuti, quindi della propria notorietà e infine dei propri guadagni.

Sì, se uno dà un’occhiata alle protagoniste di questa ennesima vicenda di “doppia morale” (costruisco il successo sulla difesa fanatica di vittime tout court, salvo però riservare a me e ai miei amichetti il diritto supremo di applicare valori e pratiche opposte nella vita quotidiana), vede facilmente che si tratta perlopiù di soggetti che trovano nella Rete il luogo principale in cui vomitare tutto il proprio fanatismo a senso unico. Soggetti depositari di verità certe e nette, urlate come se quelli che la pensano diversamente fossero per forza di cose dei minus habentes o dei corrotti al servizio dei criminali.

D’altronde la Rete, il luogo dove ormai si informa l’80% dei cittadini, richiede più o meno questo schema: il giornalista od opinionista influencer deve sposare una verità assoluta, riscontrando e denunciando con protervia tutti i torti da una parte e tutte le ragioni dall’altra (ah, i bei tempi andati in cui si ricordava che l’intelligenza coglie le sfumature, mentre è il dogmatismo a vedere solo bianco e nero). Naturalmente l’operazione va nutrita con un trauma, un torto o comunque un malessere esistenziale denunciato dallo/a stesso/a influencer “rabbioso/a”, perché fa figo e poi devi denunciare di aver subito qualcosa, se vuoi ergerti a paladino/a credibile delle vittime.

Il tutto, infine, trova il proprio coronamento nella promozione del proprio libro, di un’intervista, di uno spettacolo o conferenza di qua o di là. Il confine tra l’informazione e la promozione del proprio sé, ovviamente, sfuma come vino in una padella sul fuoco in cui si sta cucinando sterco.

Naturalmente, poi succede che questi personaggi costruiti a tavolino come dei cavalieri del giusto, armati di verità e col cavallo bianco della morale buonista sotto al sedere, nella vita reale si rivelano essere tutt’altro, come accade in tutte quelle professioni in cui il cinismo diventa fisiologico se si ritiene di parlare a un pubblico che va intrattenuto ma anche convinto e fidelizzato (politici, uomini di spettacolo o marketing e oggi anche gli influencer).

Questo succede quando il terreno principale della comunicazione, dell’informazione ma anche della diffusione di idee e opinioni, è diventata quella Rete che sintetizza perfettamente società dello spettacolo e mercato commerciale. Verità, ragionamento, etica e quant’altro, vengono tutte sacrificate sull’altare dell’intrattenimento, del fanatismo da stadio e della logica quantitativa (follower, like, commenti, visualizzazioni etc.).

Senza contare, lo dico a margine, che in una discarica comunicativa del genere, spesso e volentieri finiscono col salire agli onori dei numeri soggetti perlopiù indegni e mediocri, al netto di qualche talento spettacolare da filmetto di serie C degli anni Settanta del secolo scorso. Per non parlare di quelle vere e proprie zucche vuote che, pur prosperando nel mondo della comunicazione, ancora non hanno capito che nell’epoca della fine della privacy scrivere certe cose barbariche in chat, prima ancora che da femministe e paladini mancati di deboli e vittime di varia natura, è da coglioni perfettamente riusciti.

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Il Fatto Quotidiano

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