La fragilità giovanile è la prima guerra che l’Occidente deve vincere per ricostruire il futuro

  • Postato il 21 luglio 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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Siamo talmente ‘presi’ dalle guerre intorno a noi che non ci rendiamo conto di perdere quella più grande, dentro casa. Quella che vede coinvolti i nostri figli e la loro capacità di stare al mondo. Una “fragilità giovanile”, o “depressione giovanile di massa” (Massimo Recalcati), o “Debilitazione giovanile di massa” (J.Heidt), che secondo molti rischia di rendere la generazione dei ventenni inadatta a tutto- al lavoro, alle sfide di cui dovranno essere responsabili, a diventare classe dirigente.

Un approfondimento recente sul tema nasce all’interno di un “think tank” del Terzo Settore, Leader4Future, che riunisce i direttori generali delle principali organizzazioni, coordinato dal sottoscritto e da Diego Battistessa (Ricercatore dell’Università Carlos III Madird), con il supporto di Social Change School. Ne emergono alcuni elementi molto chiari ed estremamente preoccupanti che confermano le percezioni degli operatori e se possibile le aggravano. Quali sono i principali fattori di fragilità, quali le cause, e quali le possibili conseguenze?

In La generazione ansiosa. Come i social hanno rovinato i nostri figli (Rizzoli, 2024), un saggio che ha già fatto storia, Jonathan Haidt, Psicologo Sociale sperimentale americano, analizza l’aumento vertiginoso dei disturbi d’ansia, depressione, suicidi, e altri problemi di salute mentale a partire dal 2010, tra i giovani nati dopo il 1995 (Generazione Z – i ventenni di oggi) nel mondo occidentale.

Ecco le aree di debolezza e fragilità che caratterizzano la Generazione Z, rilevate nell’osservazione scientifica di Haidt:
1. difficoltà nella gestione dell’ansia e dell’incertezza: l’esposizione costante ai social media aumenta il confronto sociale, la pressione a mostrarsi sempre “perfetti” ha creato una base di insicurezza e stress
2. isolamento sociale e scarse competenze relazionali: l’interazione digitale sostituisce quella reale, rendendo più difficile sviluppare empatia, capacità di dialogo e gestione dei conflitti reali
3. dipendenza dalla famiglia e scarsa autonomia: molti giovani fanno fatica a prendere decisioni in modo indipendente e tendono a coinvolgere i genitori anche nelle scelte lavorative, segno di una fiducia in sé stessi non ancora pienamente sviluppata.
4. difficoltà di adattamento al mondo del lavoro: le aziende segnalano carenze nelle competenze comunicative, nel problem solving, nella capacità di lavorare in gruppo e nell’accettare feedback. Spesso i giovani hanno aspettative irrealistiche e poca esperienza pratica;
5. mancanza di resilienza: l’iperprotezione genitoriale e la riduzione delle esperienze di rischio e autonomia rendono più difficile per i giovani affrontare le difficoltà e gli insuccessi.

Ma quali sono le cause di tutto questo? Heidt Mostra come tale “debilitazione di massa” sia strettamente correlata (e causata) con:
1. la massima diffusione dello smartphone (uscito nel 2007);
2. l’iper viralità dei social media con l’introduzione dei “like” e “retweet” o “share” (2009);
3. l’adozione delle fotocamere frontali (2010), coniugato con l’affermarsi di Instagram, che favoriscono il confronto costante, la paura di essere esclusi – FOMO, Fear of Missing Out – e che ha portato soprattutto le femmine alla ricerca di affermazione della propria popolarità e ad un’ansia di esposizione.

L’autore è in grado di escludere con precisione che i fattori “debilitanti” siano dovuti a preoccupazioni relative al cambiamento climatico, guerre, situazioni di crisi economica (es. 2008) o pandemia (che comunque è fattore aggravante del senso di fragilità). È evidente che ogni generazione ha peraltro ha avuto le sue preoccupazioni e drammi.

È dimostrato in modo chiaro che i problemi psicologici come ansia ed una profonda trasformazione della coscienza e delle relazioni umane, si siano letteralmente impennati dopo il 2010. Haidt individua poi, oltre all’ubiquità degli smartphone e dei social media, alcuni altri fattori chiave che avrebbero contribuito a questa situazione, questi si ben noti agli psicoterapueti;
d. stili genitoriali iperprotettivi che limitano le esperienze di autonomia e resilienza dei ragazzi;
d. pressioni crescenti e competitività nel sistema educativo;
d. diminuzione delle opportunità di sviluppare indipendenza e competenze sociali.

La guerra per il futuro però non è certo persa, e qui mi dissocio da una narrazione tanto vittimista quanto pessimista di tanta sinistra, e ci sono moltissimi fattori positivi su cui investire.

È chiaro innanzitutto che non si può parlare di giovani in generale, i giovani cinesi e sudamericani sono diversi da quelli europei ed americani. Così come ci sono differenze nel mondo giovanile occidentale, con “bacini” che si differenziano molto, per fare un esempio quello dello scoutismo – che ha una base solidissima sia dal punto di vista valoriale ed operativo. O profili di giovani cresciuti in famiglie che hanno un’etica del lavoro molto forte ed una autorevolezza genitoriale, e che quindi hanno sottoposto i figli alla gestione della frustrazione, ed all’indipendenza sin da piccoli. Ci sono inoltre esperienze organizzative giovanili di eccellenza che contraddicono una visione di “declino generalista” come quella di Scomodo in Italia.

La prima debolezza dell’Occidente è a mio avviso valoriale, stretto tra mercantilismo consumista e mancanza di visione a lungo termine del bene comune. Abbiamo sostituito i ‘like’ alla “Virtus” latina. I followers virtuali alle più profonde relazioni di classe, intellettuali ed amicali. I retweet all’approfondimento collettivo. I selfie alla spessore della sostanza. Lo smartphone alla densità relazionale… Per questo le posizioni più solide dal punto di vista scientifico, sono per “niente uso dello smartphone prima delle scuole superiori”, e “niente social prima dei sedici anni” (J.Heidt, op. Cit). Misure forti, ma per una una guerra che non possiamo perdere.

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Il Fatto Quotidiano

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