La storia dei Soundgarden ‘senza specchi in camerino’. Una biografia che dimentica la vanità

  • Postato il 31 luglio 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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C’è qualcosa di marcio nella memoria, qualcosa che puzza di palco sudato e camerini sgangherati, di notti passate a ingoiare bile più che birra. I Soundgarden erano questo. E Valeria Sgarella lo sa. Lo scrive, lo tira fuori pezzo per pezzo, come uno scultore dell’invisibile che non crede nei santi. Niente specchi in camerino non è solo il titolo di un libro. È un avvertimento. È come dire: dimentica la vanità, perché qui dentro si consuma la carne vera. Lo sa talmente bene Valeria, che apre la porta di quell’inferno gentile chiamato Soundgarden e ti ci spinge dentro senza chiederti permesso.

È un libro che ha il coraggio di non brillare. Niente scintillii, niente apologie da fanboy. Solo la materia bruta di una band nata dal fondo del corpo, con la rabbia addosso come una seconda pelle e l’incapacità cronica di essere cool. I Soundgarden non sono mai stati sexy come i Nirvana, né sistematici come i Pearl Jam. E proprio per questo sono stati più reali del grunge stesso, semmai questo termine abbia significato davvero qualcosa. Sgarella non fa il monumento, fa l’autopsia e non usa i guanti.

Ogni grande storia inizia con un rumore. Quella dei Soundgarden comincia con la voce di Cornell che ti squarta il petto. Non una voce, un’eco preistorica. Sgarella, da giornalista che conosce il mestiere, potrebbe costruirci sopra una mitologia. Invece no. Preferisce seguire le crepe. Cornell è bello e dannato, certo, ma anche sfibrato, contorto, sempre sul punto di scomparire. La sua parabola – tra band, progetti paralleli, depressioni e cadute – è raccontata senza reverenze. Come se l’autrice fosse lì, accanto a lui, mentre prova a scrivere una canzone e invece gli viene da piangere.

E poi ci sono gli altri. Kim Thayil, il chitarrista obliquo che parlava a colpi di accordature disossate, il saggio della band. Matt Cameron, il metronomo umano con l’anima jazz, che dopo 27 anni ha lasciato i Pearl Jam. E Ben Shepherd, il bassista che sembrava un cane randagio, uno che suona col cuore ma vive con lo stomaco. Nessuno di loro è un comprimario. Nessuno è un’icona. La forza di Niente specchi in camerino sta nel rifiuto del racconto epico. Non c’è redenzione, non c’è catarsi. Solo la cronaca di un’esperienza collettiva, profonda come un taglio nel fianco. L’autrice attraversa la storia della band come chi cammina in una città che ama e che al tempo stesso gli fa schifo: Seattle, quella vera, quella tossica e fertile, dove il rock si è mescolato con la morte come si mescola l’inchiostro nell’acqua. Non c’è nostalgia, c’è malinconia, che è un’altra cosa. La malinconia è lucida, ti fa vedere bene i contorni. Anche quelli delle cicatrici.

Eppure il libro non è solo un documento. È una confessione. La voce che lo scrive sa di cosa parla. Sente la musica nei polmoni. E allora, pur nella scrittura ordinata e documentata, c’è una vibrazione che non puoi ignorare: quella di chi ha pianto su Fell on Black Days, di chi ha masticato Rusty Cage come fosse vetro e zucchero, di chi sa cosa vuol dire avere 16 anni e pensare che Superunknown sia la Bibbia e l’obitorio allo stesso tempo.

Poi arriva la morte. Non come climax, ma come sottofondo sonoro. Perché nei Soundgarden la morte c’è sempre stata. Non è il finale tragico, è l’accordo di fondo. Quella roba che senti anche quando le casse sono spente. La morte di Cornell, certo, ma anche quella di Andy Wood, quella degli altri che non ce l’hanno fatta, e perfino quella simbolica di una scena musicale che è stata venduta in offerta speciale al supermercato del dolore. Grunge, lo chiamavano. Ma era solo disperazione impacchettata per adolescenti con la camicia di flanella.

Sgarella, con la delicatezza che le è propria, evita di cadere nel buco nero della commemorazione. Non fa psicoanalisi da discount. Piuttosto, afferra la vertigine per quello che è: un’eredità scomoda. Una domanda che resta aperta, come certe canzoni che non finiscono mai. C’è un momento, leggendo questo libro, in cui ti fermi. Non perché ti sei annoiato, ma perché ti manca l’aria. Succede quando capisci che questa storia è anche la tua. Che i Soundgarden non sono solo una band, ma un modo di stare al mondo. Spigolosi, incoerenti, intensi fino alla combustione. E allora ti guardi allo specchio, se ne hai uno in camerino, e ti chiedi: quanti pezzi di me ho lasciato per strada, quanti ne ho svenduti per sopravvivere? La risposta non arriva, ovviamente. Ma non è questo il punto. Il punto è che Niente specchi in camerino non cerca risposte. Cerca verità. E la verità fa male, sì, ma almeno è viva.

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Il Fatto Quotidiano

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