L’arte ambientale è ancora attuale? Facciamo il punto con Emanuele Montibeller 

La Land Art è un fenomeno storicizzato, che ha però ancora una sua forte valenza estetica e riesce a veicolare messaggi quanto mai attuali. Tuttavia, dai suoi esordi è senz’altro cambiato lo scenario, che oggi si caratterizza per una maggior consapevolezza in merito a problemi ambientali quali inquinamento, cambiamento climatico, fragilità del pianeta. Abbiamo approfondito il tema con Emanuele Montibeller, tra i fondatori di Arte Sella circa 40 anni fa e ora direttore creativo di OCA Oasy Contemporary Art and Architecture, un progetto ambizioso che si pone l’obiettivo di mettere in dialogo la creatività contemporanea con un vastissimo habitat naturale protetto. 

Emanuele Montibeller, OCA Oasy Contemporary Art © Mattia Marasco
Emanuele Montibeller, OCA Oasy Contemporary Art © Mattia Marasco

Intervista a Emanuele Montibeller

Secondo lei l’arte ambientale funziona con gli stessi meccanismi di quando è nata, oppure negli ultimi decenni si sono affermati diversi paradigmi?  
Io mi occupo del rapporto tra arte e natura da ormai 40 anni. Quando ho cominciato la Land Art – che ha fatto i suoi esordi nel decennio precedente ma è sbocciata negli Anni Ottanta – era uno dei filoni importanti dell’arte contemporanea. Si trattava di avanguardia e ha espresso grandi artisti, basta citare Richard Long. Naturalmente gli approcci erano diversi tra i vari paesi: quella inglese era differente dall’americana, anche perché gli spazi ambientali sono completamente diversi e soprattutto perché in Europa non può esistere la wilderness, cioè una natura che non è mai stata antropizzata. Nel Vecchio Continente tutta l’aria è stata respirata, tutti i luoghi sono stati coltivati e sono frutto della sedimentazione di utilizzi nei secoli. Però oggi possiamo dire che quel periodo è finito per due motivi: il primo è che la questione ambientale è profondamente mutata e il secondo è che oggi non si può fare ricerca artistica senza tener conto dell’approccio scientifico e tecnologico.  

Quindi come cambiato l’approccio all’ambiente nel contesto della Land Art? 
Negli Anni Ottanta pensavamo che la questione ecologica dovesse essere affrontata soprattutto da un punto di vista comportamentale, e cioè che mettendo in pratica alcune azioni nella vita quotidiana si potesse contribuire a risolvere i problemi dell’ambiente. Oggi invece abbiamo capito che la cosa è molto più complessa e nel frattempo, a mio avviso, abbiamo raggiunto la consapevolezza di essere noi il problema, quindi sappiamo che possiamo sperare di migliorare la situazione solo lavorando dall’interno dell’Antropocene. Con il nuovo secolo abbiamo compreso che o si cambia paradigma o ci prendiamo in giro. 

Kengo Kuma, Dynamo Pavillion, 2025, OCA Oasy Contemporary Art © Lorenzo Marianeschi
Kengo Kuma, Dynamo Pavillion, 2025, OCA Oasy Contemporary Art © Lorenzo Marianeschi

E cosa c’entra la componente tecnologica? 
È un altro fattore importante: più aumenta la componente tecnologica, più sentiamo l’esigenza di trovare senso nelle cose e di rivivere la natura con modalità che forse ci siamo dimenticati. Pensiamo che la natura sia povera, non sappiamo più riconoscerla e cogliere i frutti che ci dà in maniera gratuita; non abbiamo più neanche la capacità di rapportarci spiritualmente con il naturale. La scienza invece ha capito che la spiritualità è necessaria nella ricerca e, soprattutto, nel rapporto con l’ambiente, e che abbiamo bisogno di una creatività che sia in grado di riprendere una cosa che forse ci siamo dimenticati, cioè l’aura. Ci siamo staccati, abbiamo parlato alle moltitudini, ci siamo sovraccaricati di informazioni, di immagini ma abbiamo perso la capacità di dare un senso profondo a ciò ci circonda. 

Come sono cambiati gli artisti e gli strumenti con cui operano? 
In questi ultimi vent’anni gli strumenti sono completamente cambiati. Per esempio, c’è una generazione di artisti che oggi ha 40 anni e che pertanto è nata analogica, ma che ragiona digitalmente in termini estetici. È una generazione di transito. Il contesto, sia culturale sia ambientale, è cambiato molto in fretta. Rimane il fatto che noi esseri umani, come animali, siamo nati per modificare il mondo, che ci piaccia o no, e abbiamo creato non solo uno spazio artistico, ma la dimensione esatta nella quale dobbiamo esistere. Negli Anni Settanta o Ottanta i protagonisti della Land Art utilizzavano spesso materiali naturali, che modificavano l’ambiente ma solo in parte, e comunque l’intervento veniva riassorbito. Oggi gli artisti hanno un approccio diverso e si chiedono: “Com’è giustificabile il mio intervento? Devo utilizzare solo materiali naturali o posso usare tecniche coerenti che abbiano un impatto ridotto, pur non essendo naturali?” 

Matteo Thun, Fratelli Tutti, 2025 OCA Oasy Contemporary Art © Mattia Marasco
Matteo Thun, Fratelli Tutti, 2025 OCA Oasy Contemporary Art © Mattia Marasco

Quali sono gli obiettivi dei suoi progetti di arte ambientale? 
Ho sempre basato i percorsi artistici – che non sono solo espositivi – su un punto di vista esperienziale. L’esperienza, per me, è fondamentale come strumento di comprensione, soprattutto se ci si rapporta a grandi spazi. Rispetto ad Arte Sella, nel mio più recente progetto per OCA a San Marcello Piteglio (Pistoia), ho voluto interpretare il luogo che è un’oasi WWF cambiando sia la metodologia di visita sia quella espositiva. Per me è importante pensare a come verrà fruito il luogo: infatti non basta più girare attorno all’opera, bisogna considerare il comportamento del visitatore. A OCA, in particolare, si arriva solo a piedi e si è sempre accompagnati da una guida, sia perché l’oasi è un ambiente naturale delicato sia perché c’è la possibilità di perdersi o di correre dei pericoli visto che il bosco è selvatico e abitato da animali selvatici. Insomma, non si tratta di pagare un biglietto, entrare e vedere un parco, qui l’esperienza è diversa e più profonda, addirittura spirituale perché comprende la scoperta, la riflessione, il limite, la fatica. Inoltre, l’oasi può contenere delle persone, ma non in quantità indiscriminata. E allora come si fa a parlare di natura se la fruizione non è coerente con il contenuto e non è rispettosa?  

Ci fa un esempio di nuova modalità espositiva? 
A OCA stiamo tentando un uso originale dell’architettura: non creiamo un modello abitativo, ma modelli architettonici per rapportarci diversamente con il mondo. Ad esempio, il lavoro di Mariangela Gualtieri e di Michele De Lucchi, intitolato Nella terra il cielo, si basa sulla poesia dell’autrice che Michele ha interpretato in senso sia materiale sia poetico. Nella loro opera – che considero una sorta di tempio – ci sono il mito, il rito – evocato nel testo che si ascolta durante la visita, magari sdraiati e guardando il cielo dall’oculo – e il racconto. Con il tempo i primi due scompariranno e rimarrà il racconto. Si tratta quindi di vedere la poesia come architettura. Del resto, tutte le opere di OCA sono fatte sapendo da principio che avranno una loro vita. 

Per concludere, oggi gli artisti sono preparati sulle tematiche naturali ed ecologiche? 
A mio avviso non è necessario. Quando un artista vive la sua arte completamente, di fatto è lui stesso natura e diventa un tramite. Ci sono artisti che hanno una grande conoscenza e altri che hanno un grande intuito. Poi tutti dovremmo avere gli strumenti per essere consapevoli del luogo in cui stiamo. Lo siamo? No, perché c’è l’esigenza di non volerlo essere. Cioè vogliamo vivere dei momenti unici inconsapevolmente perché la conoscenza è un’arma a doppio taglio: è vero che ti fa vedere alcune cose, ma è altrettanto vero che ti nasconde altro. Non creerei quindi un’etichetta per gli artisti che conoscono a fondo la natura, l’importante è che abbiano quei recettori che li connotano come artisti. 
 
Marta Santacatterina 
 
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L’articolo "L’arte ambientale è ancora attuale? Facciamo il punto con Emanuele Montibeller " è apparso per la prima volta su Artribune®.

Autore
Artribune

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