L’attentato a Ranucci è la naturale conseguenza di un linguaggio che lo ha delegittimato
- Postato il 17 ottobre 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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di Simone Millimaggi
Nella quiete notturna di Campo Ascolano, a Pomezia, il boato di un ordigno artigianale non ha distrutto solo la carrozzeria di un’automobile. Ha lacerato il perimetro simbolico che dovrebbe proteggere la democrazia. Il bersaglio, come spesso accade quando si intende inviare un messaggio inequivocabile, è stato un giornalista: Sigfrido Ranucci, volto e mente del programma d’inchiesta Report.
L’esplosione, oltre a devastare la sua vettura e quella della figlia, strappando di forza anche il cancello d’ingresso, ha innescato un allarme che travalica l’episodio criminale per configurarsi come un sintomo di una patologia politica e sociale più profonda.
Le indagini, condotte da un dispiegamento di forze che include Carabinieri, Digos e Polizia Scientifica, sono avviate per individuare i responsabili materiali. Ma la vera inchiesta, quella sul significato politico del gesto, si apre su un panorama già minato. L’Unione Sindacale Giornalisti Rai, esprimendo solidarietà a Ranucci, non si limita alla condanna dell’atto intimidatorio. Nel suo comunicato, l’esecutivo sindacale traccia una linea diretta tra la bomba e ciò che definisce un “clima d’odio e insofferenza” coltivato nei confronti della redazione.
Un clima in cui, come ricordato, è potuto accadere che la seconda carica dello Stato, il Presidente del Senato Ignazio La Russa, definisse i giornalisti di Report “calunniatori seriali”, senza che seguissero, a loro avviso, adeguate prese di distanza da parte dell’azienda.
Questa non è una semplice contrapposizione dialettica. Quando l’ostilità verbale verso il giornalismo scomodo si sedimenta nel discorso pubblico, esso cessa di essere un mero dibattito e diventa un fattore abilitante.
Parafrasando il filosofo sloveno Slavoj Žižek, come espone in La Violenza Invisibile, si può affermare che esiste una violenza “sistemica”, appunto invisibile, che è insita nel ‘normale’ stato delle cose. È la violenza del linguaggio che delegittima, che isola, che costruisce un nemico. L’attentato dinamitardo rappresenta, allora, la forma più brutale e tangibile di quella che, sempre Žižek, chiama violenza “soggettiva”, l’esplosione che irrompe dalla latenza della violenza sistemica.
L’associazione Libera, fondata da don Luigi Ciotti, parla di “corresponsabilità”, un termine gravido di significato. Esso implica che la società nel suo complesso, e le sue istituzioni in particolare, non possono assistere inerti all’avvelenamento del dibattito senza divenire, in qualche misura, complici di un terreno fertile per azioni estreme. Il rischio è la normalizzazione di una sfera pubblica dove il conflitto si trasforma in ostracismo e la critica in un bersaglio.
La posta in gioco è la natura stessa della democrazia deliberativa. Le istituzioni, come sappiamo, da sole non bastano a garantire la libertà. È necessaria una “costituzione materiale”, fatta di costumi, mentalità, modi di vivere condivisi. L’attacco a un giornalista investigativo è un attacco diretto a questo tessuto connettivo. È il tentativo di imporre ciò che il giurista statunitense Owen Fiss definiva, in The Irony of Free Speech, un “silenzio privato”. Una situazione in cui, sebbene non vi sia una censura di Stato formale, gli speaker potenzialmente più critici vengono tacitati dalla paura, rendendo il mercato delle idee un luogo ineguale e impoverito.
È essenziale rimanere vigili e unirsi nella difesa del pluralismo e del dibattito aperto, affinché il mercato delle idee possa prosperare e continuare a garantire un futuro migliore per tutti.
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