Lo sciopero dei giornalisti per Gaza invocato da L’Unità sarebbe utile. Ma una cosa non mi convince

  • Postato il 28 agosto 2025
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Ho letto l’articolo-lettera aperta del direttore de L’Unità, Piero Sansonetti, che, dopo l’ennesima strage di giornalisti a Gaza per mano dell’esercito di Israele, fa appello ai colleghi giornalisti a convocare uno sciopero.

Sarebbe una scelta importante. Certo tardiva, visto che sono già stati massacrati circa 250 giornalisti in Palestina. Ma, come ci ricorda l’antico adagio popolare, meglio tardi che mai.

Lo sciopero si fa contro qualcuno. Gli operai scioperano contro i proprietari dell’azienda per ottenere un aumento di stipendio, il ritiro di un licenziamento, ritmi più umani, maggiori diritti, ecc; contro un governo, per tutelare le proprie libertà sindacali, per rivendicare un salario diretto più alto, un salario indiretto (welfare) efficiente, gratuito e per tutti, ecc.

Contro chi sciopererebbero i giornalisti colleghi di Sansonetti?

Contro Israele, certamente. Uno sciopero di solidarietà con i colleghi palestinesi, un sacrosanto gesto di internazionalismo e che può far male a Israele. Come dimostrano diverse dichiarazioni di Netanyahu e degli alti vertici israeliani, infatti, la “battaglia per il racconto” è fondamentale per Israele. Tel Aviv ha recentemente ingaggiato dieci influencer per spacciare la balla che a Gaza in fondo va tutto bene. Israele si rende conto che la propaganda confezionata quotidianamente dagli apparati di potere – politico, mediatico, ideologico – non funziona.

Il mondo non crede a Israele. Il mondo vede ciò che accade a Gaza. Il mondo vede il genocidio in corso. Lo vede attraverso gli occhi artificiali – macchine fotografiche, telecamere, smartphone – dei giornalisti e degli addetti all’informazione palestinesi che sono a Gaza.

Sono quegli occhi artificiali l’arma che Israele non sopporta. Per questo cerca di eliminarla, facendo fuori gli esseri umani che puntano quegli occhi contro il genocidio: 250 giornalisti ammazzati è un dato mai raggiunto in alcuna situazione negli ultimi 70 anni di storia mondiale. È un “pressicide”, il giornalista ammazzato non è “effetto collaterale”, ma “target centrato”.

C’è però un punto della lettera di Sansonetti che non mi convince. E che ritrovo in tante prese di posizione e tanti appelli.

Sansonetti scrive che “se promuoviamo una mobilitazione contro il massacro a Gaza, forse poi potremo provare a giustificarci coi nostri figli. Potremo dire loro: noi ci siamo mossi. Altrimenti saremo ricoperti dalla vergogna”. È un approccio morale, certo apprezzabile, ma tutt’altro che sufficiente. È votato allo “sconfittismo” che ormai caratterizza in particolare certa sinistra, sottomessa all’idea che, di fronte a vittorie ritenute ormai impossibili da conquistare, l’unica cosa che ci rimane è il beau geste, una romantica sconfitta che almeno ci mette dal lato giusto della storia e fa stare tranquilla la nostra coscienza.

La politica, però, quando è pura testimonianza, accompagna la sconfitta. Qui non si tratta di fare qualcosa per salvare la nostra anima, ma per cambiare il segno della Storia: contribuire concretamente a mettere fine a un genocidio. Per questo scioperare solo contro Israele non è sufficiente. Bisogna incrociare le braccia contro i propri direttori, contro la proprietà di giornali, tv, mezzi di informazione (chiaramente non contro quei pochi che invece sono stati una voce importante per raccontare la verità del genocidio); cominciando magari da quegli editori, come Romeo, che Sansonetti conosce bene in quanto proprietario tanto de L’Unità quando de Il Riformista, quotidiano ultras del governo Netanyahu.

Nella sua quasi totalità il potere mediatico occidentale è stato ed è cinghia di trasmissione della propaganda israeliana. È stato ed è “scorta mediatica del genocidio” in corso. Un esempio concreto? Dopo la strage dell’ospedale Nasser di Khan Younis, con l’uccisione di altri cinque giornalisti, queste le prime pagine dei principali quotidiani italiani (le prime pagine dei quotidiani dell’ultradestra mancavano addirittura di qualsivoglia riferimento; forse meglio così per i giornalisti palestinesi):

“Gaza, la strage all’ospedale”, Corriere della Sera;
“Gaza, bombe sull’ospedale. È strage di giornalisti”, La Repubblica;
“Gaza, nuove stragi di giornalisti”, La Stampa;
“Gaza, bombe in ospedale. Strage di medici e cronisti”, Il Messaggero;
“Bombe sull’ospedale Nasser: 20 morti tra cui cinque giornalisti”, Il Sole 24 Ore.

Avrebbero potuto titolare “Israele fa ancora strage di giornalisti” e invece hanno preferito, anche questa volta, far sparire il soggetto, il chi ha compiuto la strage all’ospedale. Israele nemmeno va nominato.

Per essere davvero granelli di sabbia utili per mettere fine al genocidio in Palestina, il nostro terreno di battaglia è qui, a casa nostra. Il nostro contro è qui. Sono quegli apparati – politici, economici e anche mediatici – che con la loro complicità rendono possibile la prosecuzione dello sterminio ordinato da Netanyahu. Se un eventuale sciopero dei giornalisti saprà incrinare o addirittura rompere uno di questi anelli di complicità – quello del potere mediatico – avremo fatto un bel passo in avanti.

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Il Fatto Quotidiano

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