Lo Stato non solo rinuncia a salvare i borghi: li condanna definitivamente
- Postato il 6 luglio 2025
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di Rocco Ciarmoli
C’è un modo in cui le terre muoiono che non fa rumore. Non per terremoti, né per guerre. Muoiono per assenza programmata, per decisioni non dette, per silenzi che pesano come cemento sui paesi svuotati. Le aree interne conoscono bene questa morte lenta, bianca, burocratica. Ma oggi, più che mai, cominciano a sospettare che non si tratti solo di destino.
Già nel 2019, Romano Prodi parlava apertamente di spopolamento programmato, affermando: “L’idea che si possano far vivere persone isolate come un tempo ci deve passare dalla mente”. Un principio di “razionalizzazione” dei territori. Oggi non siamo più nemmeno nel riflesso di un progetto ideologico: siamo dentro la sua piena esecuzione.
Lo conferma la strategia appena pubblicata dal governo Meloni. Nel PSNAI 2021–2027, il Piano Nazionale per le Aree Interne, si legge nero su bianco: “Queste aree non possono porsi alcun obiettivo di inversione di tendenza, ma devono essere accompagnate in un percorso sincronizzato di declino e invecchiamento”. Non è una provocazione. È la linea ufficiale dello Stato. Per la prima volta si sancisce che lo spopolamento non solo è inevitabile ma va gestito come una necessità economica. Lo Stato non solo rinuncia a salvare i borghi: li condanna definitivamente.
Nel frattempo, però, cambia drasticamente la rotta della spesa pubblica, portando gli investimenti in armi e difesa al 5% del Pil entro il 2035. Parliamo di oltre 100 miliardi di euro l’anno, destinati non alla sicurezza sociale, non alle scuole, non alle strade, ma all’industria bellica. Intanto i Comuni sotto i 5.000 abitanti non riescono nemmeno a garantire i servizi minimi essenziali. Secondo i dati OpenCivitas, il 72% non raggiunge gli standard di spesa per trasporti, farmacie, viabilità.
Molti non hanno più scuole, banche, né medici di base. Il mercato li ha abbandonati da tempo. Ora anche lo Stato.
Ed è qui che si consuma il vero tradimento costituzionale, perché in Italia non esistono territori marginali per legge, ma lo stanno diventando per decisione politica. Non si tratta di declino, ma di diserzione istituzionale. Lo Stato rinuncia alla sua funzione di garante della coesione, e al suo posto resta solo una ragioneria armata.
Non c’è nulla di poetico nell’abbandono. Nulla di “naturale” nella scomparsa dei paesi. È una rimozione progressiva, autorizzata in silenzio. Si taglia il cuore dell’Italia rurale mentre si gonfia il petto dell’apparato militare. Lo chiamano “strategia”, ma è solo la resa a un modello in cui sopravvive ciò che genera profitto. Il resto, lentamente, va spento. Come se esistere valesse solo finché si produce, finché si consuma, finché si rende.
Ma vivere significa riconoscersi, appartenere, lasciare tracce.
E in quei luoghi che oggi vengono considerati zavorra, esiste ancora una forma essenziale di civiltà: una memoria collettiva, una visione del tempo che resiste alle logiche di mercato. Non sono rovine da fotografare, ma spazi da abitare. E chi ci vive non è un ostacolo alla modernità, ma l’ultimo presidio contro l’omologazione dell’esistenza.
E forse è proprio questo il punto più grave: le scelte non vengono più fatte nei territori, né per i territori.
L’agenda politica si scrive altrove, in sedi che rispondono a logiche di bilancio, non di giustizia.
I governi cambiano, ma l’obbedienza resta. E il prezzo lo pagano sempre gli stessi: i luoghi che non contano.
John Maynard Keynes scriveva: “L’economia non si occupa di oggetti materiali, ma di uomini che agiscono secondo motivi psicologici e sociali.” Ed è proprio questo che manca oggi: una visione umana dello spazio, capace di vedere nei territori fragili non un peso da tagliare, ma una ricchezza da custodire. Nel mondo della razionalizzazione chi non produce viene escluso, ma in una Repubblica degna di questo nome la spesa pubblica non è un costo: è la forma visibile di una promessa.
Un Paese che lascia morire i suoi borghi non è in crisi d’identità: è un atto di eutanasia culturale.
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