Marco Mengoni e il corsetto delle polemiche. Io dico che serve più coerenza tra look e musica

  • Postato il 30 giugno 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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In questi giorni, i look di Mengoni – in particolare i celebri corsetti scelti per il tour – hanno acceso il dibattito. Li ho osservati anch’io, come si osservano le scelte di scena di ogni artista. E da lì ho iniziato a chiedermi: cosa ci vuole raccontare Mengoni, oggi? C’è coerenza tra ciò che mostra e ciò che canta? Perché la musica, l’immagine, il corpo, fanno parte dello stesso racconto.

Nei consueti nove punti di questo blog voglio provare a rispondere. Con argomenti, senza offese. Con gusto, senza moralismi.

Cominciamo.

1. La perfezione come limite
Mengoni è ineccepibile. Intonato, preciso, studiatissimo. Ma la perfezione, se non scalda, diventa distanza. Ascoltarlo, per me, è come osservare una statua lucida e bianca: levigata, senza incrinature, senza tracce del tempo o del corpo. È bella, sì. Ma fredda. Mi manca una fenditura, una crepa — qualcosa che incrini quella superficie liscia e faccia filtrare un’emozione, una storia, un’imperfezione vera. In quella musica, come in quella statua, non riesco a trovare vita.

2. Canzoni impeccabili, eppure…
Le canzoni di Mengoni sono costruite con cura: hanno struttura, melodia, impatto. Ma spesso sembrano frenate, scollegate da un’urgenza autentica. La percezione è che, nonostante il successo, gli manchi ancora un disco davvero necessario, una canzone-manifesto capace di raccontarlo pienamente. Di quelle che restano, che spostano.

3. Il corsetto, ovvero: l’abito (non) fa il cantante
L’immagine conta. Sempre. E se sali su un palco con un corsetto, stai chiaramente comunicando qualcosa. Ma nel caso di Mengoni, quel messaggio, per me, si perde. Il corsetto non lo valorizza: lo irrigidisce. Gli abiti scelti per il tour — più in generale — sembrano una forzatura estetica, una cornice che invece di amplificarlo lo comprime.

4. Cerioni, Mahmood e il riciclo stilistico
I look per il tour sono curati e scelti da Nick Cerioni. Erano già stati oggetto di discussione su Mahmood, e ora ricompaiono su Mengoni in forma pressoché identica. Ma non è citazione, né omaggio: è ripetizione. Un déjà-vu che non osa, non aggiunge nulla. Sul cantante italo-egiziano potevano anche avere un senso — con quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così — ma su Mengoni… la questione resta aperta.

5. L’equivoco della libertà
“Ognuno si vesta come vuole” – ed è sacrosanto. Ma chi osserva ha lo stesso diritto a dire: “non mi piace”. Non è moralismo, non è censura. È opinione. Quando l’estetica diventa pubblica, diventa anche leggibile, interpretabile, criticabile. Non possiamo chiedere visibilità e, allo stesso tempo, blindarci dal confronto. Fa parte del gioco. Vale per tutti. Ben diverso, invece, è l’odio gratuito che si è riversato online su Marco dopo il concerto: offese, allusioni, insulti omofobi. Lì non c’è più giudizio né analisi: solo miseria umana. E chi si rifugia in quel luogo, non sta difendendo un gusto. Sta solo mostrando il peggio di sé.

6. Il Paese della moda e del giudizio
Viviamo in un Paese in cui la moda è cultura, identità, linguaggio quotidiano. Ma paradossalmente oggi sembra proibito dire che un look è brutto, inadatto, fuori fuoco. Come se il solo fatto di osare equivalesse ad avere ragione. E invece no. Anche l’estetica — soprattutto quando diventa messaggio pubblico — può essere fragile, sbilanciata, discutibile. Non tutto è espressione riuscita. E dirlo, con rispetto, non è lesa maestà: è solo esercitare un punto di vista. Magari sbagliato, magari isolato. Ma legittimo.

7. Quando immagine e musica non dialogano
I look di Mengoni in questo tour sono forti, dichiarati, simbolici. Comunicano libertà, fluidità, rottura. Ma la musica no: resta elegante, controllata, prevedibile. È lecito non cambiare repertorio solo perché si cambia immagine, certo. Ma se l’impatto visivo è così netto, così carico di senso, allora il disallineamento si nota. E lascia spiazzati. Non trovo coerenza, e questo — almeno per me — toglie forza a entrambi i linguaggi.

8. Il giorno in cui si guarderà indietro
Credo che Mengoni, tra qualche anno, potrebbe riguardare questo passaggio del suo percorso con un pizzico di imbarazzo per questo disallineamento tra estetica e musica che — come detto — lo rende meno credibile. Basta confrontarlo con Mahmood: l’italo-egiziano porta avanti un’evoluzione coerente, dove immagine poetica e sonorità crescono insieme, si inseguono, si richiamano. Mengoni invece sembra in bilico, sospeso tra ciò che vorrebbe evocare e ciò che continua a proporre. E allora la domanda è: se un giorno dovesse tornare sui suoi passi, scegliere linguaggi a lui più consoni… il suo pubblico sarà ancora lì ad applaudirlo?

9. Fare spazio
Abbiamo capito che Mengoni sta cercando qualcosa. Un modo nuovo per stare sul palco, per raccontarsi. Magari è solo una fase, magari ci crede davvero. Magari cambierà strada. Lo farà bene, lo farà male — chi può dirlo? Io qui dico solo la mia. Ma a lui, come a chiunque, va lasciato lo spazio per provare. Anche per sbagliare. Perché è così che si cresce. Nella musica, nella vita, nel look.

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Il Fatto Quotidiano

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