Nel Lazio 8 artisti riaprono al pubblico un antichissimo castello

  • Postato il 27 luglio 2025
  • Arti Visive
  • Di Artribune
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Il progetto Imagina, ideato e curato da Spazio Taverna, è pensato per riattivare il genius loci dei comuni italiani caratterizzati da una storia culturale e da un contesto artigianale e industriale di rilevanza nazionale. Per la terza edizione, dal titolo 1 grado di separazione, ospitata al Castello Orsini e a Palazzo Chigi Albani di Soriano nel Cimino, Spazio Taverna ha affidato la curatela a Chiara Lorenzetti, che ha selezionato otto artisti italiani under 30: Roberta Argenta, Martina Biolo, Paola Boscaini, Satya Forte, Edoardo Ongarato, Abdel Karim Ougri, Caterina Sammartino e Tommaso Silvestroni. Le loro opere riportano alla luce il terzo piano del castello un tempo adibito a carcere – riaperto al pubblico dopo quasi quarant’anni in occasione della mostra – e i giardini del palazzo, in un dialogo che riduce al minimo grado la distanza tra spazio-opera-pubblico-contesto. 

IMAGINA 2025 - 1 grado di separazione - Ph. Giorgio Chiantese
IMAGINA 2025 – 1 grado di separazione – Ph. Giorgio Chiantese

La curatrice Chiara Lorenzetti dialoga con i protagonisti di Imagina 2025 

Questa conversazione tra la curatrice e gli artisti vuole essere un’occasione per raccontare il percorso collettivo e allo stesso tempo i singoli approcci che hanno dato vita alla mostra.  

Chiara Lorenzetti: Roberta, vorrei partire dalla tua opera che in qualche modo ha ricercato negli spazi del terzo piano la presenza dello spirito del luogo in maniera letterale. Chi o cosa è il Genius Loci che hai incontrato? 
Roberta Argenta: Quando sono entrata nel castello, ho percepito un’energia densa, quasi fisica, come se ogni epoca avesse lasciato un’impronta viva. Il Genius Loci che ho immaginato è la personificazione di questa stratificazione: un accumulatore compulsivo del tempo e della memoria, nevrotico e contraddittorio, insieme sacro e profano, sereno e soffocante. La sua casa – l’installazione – riflette tutto ciò che è stato: un nobile, uno schiavo, una principessa, un cardinale, un cuoco, una guardia, un carcerato e tutti coloro che hanno arricchito questo posto con la loro presenza. Un’identità plurima, sospesa tra luce e ombra. 

Roberta Argenta, VITAZIM (2025), Installazione immersiva, tecnica mista (collages, oggetti trovati, pittura, scultura, suono), Ph. Giorgio Chiantese
Roberta Argenta, VITAZIM (2025), Installazione immersiva, tecnica mista (collages, oggetti trovati, pittura, scultura, suono), Ph. Giorgio Chiantese

C.L: Paola, a volte ciò che manca è più evidente di una presenza. Qual è stata l’importanza dell’assenza per il tuo processo creativo e di ricerca?  
Paola Boscaini: L’assenza spaziale, ma anche di documentazione e narrazione dei 140 anni in cui Castello Orsini è stato carcere, è stata l’ostacolo principale incontrato durante il periodo di ricerca. Quando ho compreso che quel vuoto non era un limite, ma ciò su cui dovevo concentrare l’attenzione per capire il luogo e il suo contesto, è nata l’installazione Ospitare il vuoto. La frase impressa sul tappeto “Il nostro presente non genera più rovine, non ne ha il tempo“, ispirata dal pensiero di Marc Augé, insieme a una serie di esercizi, invita a oltrepassare l’assenza, spostando lo sguardo dall’opera al luogo, per ascoltare ciò che resta e interrogarsi su come la memoria si trasformi in storia, influenzando il nostro presente. 

Paola Boscaini, Ospitare il vuoto (2025), Installazione multimediale e interattiva; stoffa, pietra, carta, Ph. Giorgio Chiantese
Paola Boscaini, Ospitare il vuoto (2025), Installazione multimediale e interattiva; stoffa, pietra, carta, Ph. Giorgio Chiantese

C.L: Karim, l’opera AIT riesce a mettere sullo stesso piano di comunicazione due mondi molto lontani nello spazio e nel tempo. In che modo la dimensione del rumore ti ha aiutato in questo? 
Abdel Karim Ougri: Il rumore, a differenza della voce, della lingua e della musica, è un elemento universale: non richiede traduzione, non appartiene a una grammatica. In AIT è stato lo strumento che mi ha permesso di tracciare una linea invisibile ma concreta tra i racconti di prigionia custoditi nelle mura del Castello e le memorie della schiavitù da cui ha origine la cultura Gnawa. Il rumore dei Krakeb che cadono a terra, secco, ripetitivo e disturbante, non è armonico né consolatorio: rompe il silenzio, mette in tensione lo spazio, evoca il ritmo delle percussioni rituali e il fragore delle catene. Non è sfondo, ma materia attiva: attraverso una continuità percettiva, si crea un campo comune in cui la reclusione non è solo un fatto del passato, ma una condizione che continua a produrre soggettività e resistenze. 

abdel karim ougri ait ph giorgio chiantese09 Nel Lazio 8 artisti riaprono al pubblico un antichissimo castello

C.L: Edoardo, la fisicità che hanno vissuto i detenuti, la tangibilità delle mura che determina la percezione dello spazio oggi viene meno, alterata in qualche modo dal tuo intervento. Ce ne vuoi parlare?  
Edoardo Ongarato: L’intervento agisce sulla cella come dispositivo di alterazione percettiva. La fisicità vissuta dai detenuti non viene negata, ma tradotta in un ambiente liminale, dove la luce attiva immagini e forme latenti. La scritta, visibile solo in condizioni specifiche, opera come soglia semantica instabile. Lo spazio della detenzione si riconfigura in ecosistema mentale, aprendo a dinamiche di esplorazione.  

Edoardo Ongarato, Must believe (2025), Stampa inkjet su carta riciclata, LED UV, vernice nitro, cavi elettrici, Ph. Giorgio Chiantese
Edoardo Ongarato, Must believe (2025), Stampa inkjet su carta riciclata, LED UV, vernice nitro, cavi elettrici, Ph. Giorgio Chiantese

C.L.: Martina, i tuoi due interventi scultorei contengono con successo una contraddizione, quella tra pubblico e privato, visibile e invisibile, superficialità e intimità. Come sei riuscita a conciliare le due anime? 
Martina Biolo: Così vicino da guardarti dentro parte da un’osservazione sui luoghi e sulla percezione invisibile. Al castello , ho deciso di ridurre l’intero edificio a un diorama, a Palazzo Chigi, invece, ho fatto un’operazione opposta. Ho preso in prestito le piastrelle del bagno del carcere, uno spazio normalmente nascosto. Questo gesto, molto semplice, cambia immediatamente la percezione del luogo e parla di prossimità, di quello che succede quando uno spazio diventa specchio, o quando qualcosa ci tocca così da vicino da costringerci a cambiare prospettiva. In fondo, non è solo il luogo che cambia, ma anche come lo abitiamo, come lo guardiamo. Questo per me è il centro del lavoro: costruire una relazione viva tra spazio e persona. 

Martina Biolo, Così vicino da guardarti dentro (2025), Gres, polistirolo; proiezione ortogonale Castello Orsini, stampa a secco su carta, polistirolo, Ph. Giorgio Chiantese
Martina Biolo, Così vicino da guardarti dentro (2025), Gres, polistirolo; proiezione ortogonale Castello Orsini, stampa a secco su carta, polistirolo, Ph. Giorgio Chiantese

C.L.: Tommaso, credo che il concetto guida del tuo processo creativo sia stato quello della fluidità, fin dalla prima visita al luogo pasoliniano delle Cascate di Chia. Il tuo lavoro può essere visto come un dispositivo per fare esperienza dell’impermanenza delle cose? 
Tommaso Silvestroni: Sono sempre interessato a ciò che accade di peculiare in un luogo, sia esso estemporaneo o periodico, e cerco di conferire questo attributo ai lavori che propongo. Tendo a modificare e tenere aperte possibilità col fine di fare aderire le cose al contesto e dare forma a dispositivi temporalizzati, piuttosto che portare qualcosa di monolitico e refrattario. In questo caso nei Giardini Chigi mi interessava la transizione tra due condizioni, liquidità e solidità, come anche nel Castello, l’installazione cerca di celebrare il passaggio, il viaggio nel tempo, tra infanzia e adolescenza. In questi presupposti c’è la risposta alla tua domanda: l’obiettivo è far accadere qualcosa nello spazio espositivo, sia prima che durante durante la mostra, col fine di aprire alla dimensione cinematica e temporale delle cose. 

Tommaso Silvestroni, Fontanile ride (2025), Bicicletta, proiezione, suono, delay, stagno, gas, cartone, carta da gioco, Ph. Giorgio Chiantese
Tommaso Silvestroni, Fontanile ride (2025), Bicicletta, proiezione, suono, delay, stagno, gas, cartone, carta da gioco, Ph. Giorgio Chiantese

C.L: Satya, nel tuo lampadario, che si configura come un “antimonumento” alla vista, convivono celebrazione e negazione del senso a cui siamo più legati. In che modo recidere una gemma equivale a “lasciare gli occhi”? 
Satya Forte: Lascia gli occhi è un invito ambiguo. Il titolo nasce da una conversazione sul termine “accecamento”, che oltre a indicare la perdita della vista, in botanica significa potare giovani gemme dagli alberi, dette occhi. Recidere una gemma, quindi, equivale ad abbandonare gli occhi, a rinunciare alla luce. Il gesto netto del taglio all’apparenza crudele, in realtà necessario ad aumentare la fioritura in primavera, diviene qualcosa di fertile, selettivo ma circolare. La fruizione dell’opera è più fisica che oculare. Si è indotti a spostarsi, allontanarsi e avvicinarsi coprendo parzialmente lo sguardo; cedere il peso alle proprie palpebre per protezione. In entrambi i casi tra il buio e una luce accecante, gli occhi divengono superficiali; possiamo lasciarli. 

Satya Forte, Lascia gli occhi (2025), Alluminio, ferro, vetro inattinico, piombo, lampadina led Ph. Giorgio Chiantese
Satya Forte, Lascia gli occhi (2025), Alluminio, ferro, vetro inattinico, piombo, lampadina led Ph. Giorgio Chiantese

C.L: Caterina, vorrei concludere con la tua opera come una sorta di dichiarazione d’amore. Ci racconti la tensione nostalgica che tiene legate le due parti della tua scultura? 
Caterina Sammartino: La tensione nostalgica tra le due parti dell’altalena si manifesta in un inesorabile separazione e profondo desiderio di riunione. Le due parti si cercano, una fuori Palazzo Chigi e l’altra dentro il Castello Orsini, legate inevitabilmente. La nostalgia diventa un simbolo del desiderio universale di amore e connessione, una metafora della condizione umana, attraverso la dichiarazione di Fatto per amore. Il colore oro rappresenta la Speranza e l’amore che unisce le due parti, alimentando la loro ricerca reciproca. La tensione nostalgica è un simbolo della nostra tendenza a cercare qualcosa di più grande, che possiamo ritrovare nel valore della Cura reciproca. 

Caterina Sammartino, Fatto per amore (2025), Ferro, spazzola in ceramica, Ph. Giorgio Chiantese
Caterina Sammartino, Fatto per amore (2025), Ferro, spazzola in ceramica, Ph. Giorgio Chiantese

Chiara Lorenzetti 
 
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Artribune

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