Nella guerra ispano-americana la stampa sobillò l’opinione pubblica: la storia si ripete oggi
- Postato il 11 settembre 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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di Carmelo Sant’Angelo
“Voi procuratemi le foto e io procurerò la guerra”. Con questa frase il magnate dell’editoria William Randolph salutava il plotone di giornalisti, fotografi, disegnatori (tutti suoi dipendenti) in procinto di imbarcarsi sulle navi, Buccaneer e Sylvia, da lui stesso noleggiate. Era il 1898, la nave era diretta a L’Avana e la guerra auspicata era quella ispano-americana, per il controllo di Cuba. Gli statunitensi consideravano l’isola come una loro naturale estensione territoriale. Intorno al 1890, l’ammontare dei possedimenti di cittadini americani sull’isola era pari a circa cinquanta milioni di dollari dell’epoca, investiti in piantagioni di zucchero, tabacco e industrie per la produzione del ferro. Nel 1895 il malcontento di Cuba, che rivendicava l’indipendenza dalla Spagna, era sfociato in una rivoluzione. Gli Stati Uniti non potevano rimanere spettatori indifferenti: avevano, come sempre, interessi da difendere.
Il 4 marzo 1897, William McKinley fu eletto 25esimo Presidente Usa, promettendo, in campagna elettorale, benessere e prosperità attraverso l’imposizione di alti tassi doganali sulle importazioni (nulla di nuovo sotto il sole). Il Presidente neo-eletto, contrario alla guerra, si era subito impegnato a risolvere la questione per via diplomatica. I negoziati non portarono all’indipendenza di Cuba, ma soltanto alla concessione, a partire dal 1º gennaio 1898, di una forma di governo autonomo, che però i ribelli non avevano accettato.
A trascinare il Paese in guerra ci pensò la stampa che sobillò l’opinione pubblica. I due più grandi imperi mediatici dell’epoca, uno capitanato da Pulitzer e l’altro da Hearst, realizzarono una campagna mediatica impressionante contro il governo spagnolo: falsa o vera che fosse, ogni giorno compariva in prima pagina, con titoli a caratteri cubitali, una nuova sensazionale notizia. Titoli accattivanti e notizie sempre più spettacolari stigmatizzavano le presunte atrocità del governo e dell’esercito spagnolo. Ovviamente nessun accenno agli interessi economici da difendere, ma molta enfasi sulle analogie con la guerra d’indipendenza americana. A far precipitare le cose intervennero due eventi: 1) la pubblicazione, da parte proprio di Hearst, di un rapporto diplomatico in cui l’ambasciatore di Spagna negli Stati Uniti descriveva il presidente McKinley come un debole che cercava solo l’ammirazione delle masse; 2) l’affondamento, ad opera di una mina sottomarina, della corazzata Maine, inviata nella rada de L’Avana per garantire la sicurezza e gli interessi dei cittadini statunitensi minacciati dai tumulti lealisti, in cui morirono 260 uomini.
Nonostante persino la marina militare americana ritenesse verosimile la possibilità di una deflagrazione interna allo scafo, l’opinione popolare, soggiogata dalla campagna mediatica, si era già chiaramente schierata contro la Spagna. La frenesia per la guerra fu presto soddisfatta. Il conflitto fu rapido e vittorioso. Il trattato di pace diede agli Stati Uniti il possesso di Cuba e di altre colonie spagnole: Filippine, Porto Rico e Guam. Cuba, ovviamente, fu beffata: rimase sotto il controllo dell’esercito americano in attesa dell’indipendenza.
La storia si ripete: il mainstream europeo, dall’inizio del conflitto ucraino, sta svolgendo un’abietta campagna mediatica per convincerci che i russi siano i nostri nemici. Diversi sono stati i tentativi per trovare il casus belli utilizzando la menzogna. Gli aedi della disinformazione pontificano a reti unificate, indifferenti alla realtà. Da ultimo, la notizia dell’omicidio del “banderista” Parubiy. In prima pagina fin quando si inseguiva la pista russa, scomparsa quando si scopre che il reo è un padre ucraino disperato. La sua confessione cozzava con la propaganda bellicista: “Questa è la mia vendetta personale sulle autorità ucraine. Sì, lo ammetto, l’ho ucciso. Condannatemi, voglio chiedere di essere scambiato con dei prigionieri per poter andare in Russia a cercare il corpo di mio figlio”.
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