“Non odio l’Italia, odio essere guardato come un criminale”: viaggio tra le seconde generazioni di Milano. Il procuratore: “Per loro è più dura, si scontrano con la disillusione”
- Postato il 31 agosto 2025
- Diritti
- Di Il Fatto Quotidiano
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C’è chi non si sente italiano perché in Italia non ci è arrivato per scelta: “Mi hanno costretto”. C’è chi ogni giorno lotta per essere considerato come tutti gli altri: “Ma questo Paese non mi ha mai accettato e mai lo farà”. E c’è chi, più semplicemente, non vuole essere giudicato: “Pensate di sapere tutto di noi, ma siamo solo ragazzi che vogliono divertirsi”. Sui giornali e in tv sono “maranza”: un appellativo che un tempo indicava genericamente le comitive rumorose nei centri delle città, oggi invece finisce quasi sempre addosso ai giovani delle seconde e terze generazioni. Figli o nipoti di migranti, arrivati in Italia tra gli anni Ottanta e i Duemila dai Paesi nordafricani: sono loro i “maranza”. Un termine sempre più carico di disprezzo, alimentato a volte da fatti di cronaca. Come quelli accaduti a Milano, l’ultima sera dell’anno scorso. Migliaia di giovani si radunano in piazza Duomo, la folla è compatta, rumorosa, tesa. Partono cori contro la polizia e l’Italia, volano insulti, fumogeni. Gli agenti intervengono, il giorno dopo scattano identificazioni e denunce: molti dei ragazzi hanno origini nordafricane. Si ipotizzano reati di vilipendio alla Repubblica, si parla di multe da 5mila euro. Il dibattito si fa rovente, politici e media rilanciano l’allarme sicurezza: secondo alcuni, Milano sarebbe a rischio banlieue, come nei sobborghi di Parigi.
Ma è davvero così? Nelle nostre città stanno crescendo generazioni di italiani che in realtà odiano il Paese in cui sono nati? O i fatti di piazza Duomo sono solo il sintomo più visibile di una fragilissima integrazione, lasciata a metà? Per provare a rispondere a queste domande, ilfattoquotidiano.it ha attraversato Milano, dalle periferie dove questi ragazzi vivono con le loro famiglie, fino al centro della città, dove i gruppi di “maranza” trascorrono i pomeriggi e le serate. Abbiamo parlato con giovani di seconda generazione, cercando di capire le loro storie, i loro sogni, le loro frustrazioni. E abbiamo intervistato anche il procuratore minorile di Milano, Luca Villa, che ogni giorno incrocia nei tribunali i percorsi — spesso accidentati — di questa generazione dimenticata.
“Si è creata una sovrapposizione mediatica e politica tra il fenomeno dei maranza e quello delle baby gang, che però non esiste come categoria giuridica”, spiega il magistrato. “Noi vediamo reati predatori — furti, scippi e rapine — ma non strutture criminali organizzate. Niente a che vedere, ad esempio, con le bande latine dei primi anni Duemila. Oggi si tratta per lo più di gruppi estemporanei, fluidi, che si formano e si sciolgono velocemente”. Anche quando si parla di reati gravi, il quadro è più complesso di quanto sembri: “Alcuni procedimenti recenti riguardano ragazzi di seconda generazione, ma anche italiani senza alcuna storia migratoria. E nell’ultimo anno, a Milano, i minori stranieri non accompagnati e i ragazzi di seconda generazione non sono stati coinvolti nei casi più violenti, come gli omicidi”.
Ma questi “gruppi fluidi” in che zona della città si muovono? Piazza Duomo, sorvegliata e affollata da turisti, resta un luogo di ritrovo centrale. Qui si vedono ragazzi in abiti griffati, cappellini calati sulla testa e casse bluetooth che sparano musica trap. Tra loro c’è Omar, 19 anni, nato in Egitto ma cresciuto a Cormano: “A Capodanno hanno fatto bene a dire quelle cose. Gli italiani ci odiano, noi odiamo loro”, dice, accendendo una sigaretta. È stato bocciato due volte, ora sta ripetendo il quarto anno: “In Egitto mi piaceva studiare. Qui mi fa schifo. I prof mi trattano come se fossi stupido. Ai miei compagni italiani non succede”.
Anche Mostafa viene da una famiglia egiziana, ma la pensa diversamente: “Io non odio l’Italia. Odio essere guardato sempre come un criminale”. Ha 18 anni, vive a Bollate, si è diplomato da poco: “Ma lì non c’è mai nulla da fare”. Così, quando può, prende il passante e poi la metro per raggiungere il centro. Come fanno Amir e Sufian, sedicenni figli di marocchini nati a San Donato Milanese. Amir sogna la musica: “Voglio sfondare, diventare famoso come Sfera o Babygang”. Sufian, invece, punta alla Ferrari. Studia meccanica, ma i genitori vorrebbero che iniziasse a lavorare subito, per mandare soldi in Marocco: “Mi sento costretto, come se il mio futuro fosse già deciso. Ma io vorrei avere una scelta”.
La mancanza di alternative è il filo che unisce molte storie. “Il problema è la povertà educativa che aumenta l’esclusione sociale. Molti di questi ragazzi crescono in strada, senza riferimenti stabili. E finiscono per abbracciare forme di microdevianza”, spiega Stefano Pasta, volontario della Comunità Sant’Egidio a Corvetto. È il quartiere di Ramy Elgaml, 19 anni, morto durante un inseguimento dei carabinieri. “In zone come questa, i giovani si sentono come la coda della città. Invisibili per lo Stato”.
Tareq ha 16 anni ed è nato in Marocco. Ogni volta che entra in un negozio, racconta che qualcuno lo segue con lo sguardo: “Come se fossimo criminali. Ma cosa abbiamo di diverso dagli altri?”. Ogni domenica, con un gruppo di amici, va a trovare gli anziani della casa di riposo del quartiere: “Ci fa sentire più vicini ai nostri nonni rimasti in Marocco”. Anche lui, quando può, prende la metro per andare a incontrare gli amici in centro. “È un modo per evadere dai quartieri da cui veniamo”.
Anche passare le giornate sui gradini della statua di Vittorio Emanuele o sui marciapiedi della Centrale diventa una forma di evasione. Soprattutto se si vive in una casa popolare di Calvairate, estrema periferia sud-est di Milano. Ex quartiere operaio, oggi ospita molte famiglie nordafricane, anche di sei o sette persone, stipate in bilo o trilocali. “È un caos organizzato. Gli appartamenti destinati ai migranti sono minuscoli, e i ragazzi passano le giornate per strada”, raccontano dal comitato di quartiere. Alcuni hanno occupato cantine o solai, generando tensioni. “Senza una presenza educativa stabile, qui è il Far West”.
Il procuratore Villa conferma: “Molti genitori fanno lavori duri e hanno obiettivi chiari. Ma non sempre hanno gli strumenti per aiutare i figli. La seconda generazione è quella che fa più fatica a integrarsi: è un dato noto anche alla criminologia. Lo abbiamo visto anche con l’immigrazione dal Sud Italia. Molti affiliati alla criminalità organizzata degli anni ’80 e ’90 erano figli di operai emigrati al Nord. Il rischio vero arriva nella seconda generazione: quella che si scontra con la disillusione”.
Oggi come allora, il disagio cerca voce. Spesso la trova nella musica. “Il problema è che alcuni modelli culturali veicolano l’idea che per emergere devi passare dal carcere. Prima ti fai la Beccaria, poi diventi famoso. Un messaggio pericoloso: prima fai rapine, poi diventi una star” spiega il procuratore. Anche i social alimentano la corsa al riconoscimento: “Gratificazioni immediate. Per questo proviamo a mostrare altre strade: il volontariato, la relazione, l’aiuto. Spesso, dopo un percorso di messa alla prova, i ragazzi ci dicono: questa esperienza mi ha cambiato. Alcuni continuano anche dopo”, prosegue Villa.
A Milano, la situazione nei quartieri popolari è difficile. A Calvairate si vive in spazi angusti, a Gratosoglio mancano educatori e spazi pubblici. “La distanza tra italiani e stranieri cresce. Senza occasioni di incontro, aumentano incomprensioni e rabbia” avverte Kadija, mediatrice culturale. Eppure, sottolinea sempre il procuratore Villa, “Milano non è Parigi. Non abbiamo banlieue strutturate, nonostante i timori. Anche dopo il caso di Ramy, la città non è esplosa”. Un merito, dice, della “disorganizzazione italiana” che ha “impedito la creazione di quartieri ghetto”. Il nodo, però, resta il rapporto con le istituzioni. Molti ragazzi raccontano di sentirsi osservati con sospetto dalla polizia, “per il nome o il colore della pelle”. Per alcuni è quello il primo contatto con lo Stato. “Ed è un problema. Molti agenti giovani non riescono a costruire relazioni. Appena possono, si trasferiscono. Serve una presenza più stabile, più matura. Nei paesi ci si conosce. Qui no. E la non conoscenza alimenta la paura”, sostiene il magistrato. La soluzione? Prevenzione. “Servono educatori di strada – dice Villa – meglio se con background simili a quelli dei ragazzi. Solo così si intercettano i bisogni veri. Perché non basta aspettarli in tribunale. Bisogna cercarli prima. E mostrare che la gratificazione può venire anche da un gesto buono, da una relazione, da un riconoscimento umano. Non solo dai soldi, dal web o dal carcere”.
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