Omicidio di Charlie Kirk: la campana suona a morto per la democrazia Usa (e per tutti noi)

  • Postato il 12 settembre 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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“La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità. E dunque non chiedere mai per chi suona la campana. Suona per te”.

Vale la pena partire da qui – dai citatissimi e spesso abusatissimi versi del poeta John Donne che introducono il più celebre dei romanzi di Ernest Hemingway – per cogliere il senso della morte di Charlie Kirk, il giovane “influencer” trumpiano assassinato mercoledì scorso nel corso d’una manifestazione che, nel campus della Utah Valley University, lo vedeva come unico e “stellare” oratore. Ne vale la pena – nonostante quei versi siano nel tempo diventati, citazione dopo citazione, una sorta di luogo comune – per almeno due ovvie ragioni ma, date le circostanze, per nulla scontate.

La prima: perché, sullo sfondo di laceranti e feroci divisioni, quei versi ci ricordano come Charlie Kirk fosse comunque un essere umano, la parte di un tutto, l’umanità, che a tutti appartiene. E come la sua morte sia, come sempre è, qualcosa che a tutti toglie qualcosa, non solo per la scia di dolore che della sua assenza è l’inevitabile strascico – a 31 anni Charlie Kirk aveva di fronte a sé un’intera vita da vivere e, come tutti, aveva una madre, un padre, dei fratelli, una moglie, dei figli, degli amici, gente che lo amava ed ammirava – ma per il fatto che la sua è stata una morte violenta, un omicidio. Ancora una volta una parte dell’umanità di cui tutti siamo parte ha assassinato – non importa per quale ragione – un’altra sua parte. La campana, come nella poesia di Donne, suona, di nuovo, per tutti noi. E suona due volte, ricordandoci come la violenza possa essere di destra o di sinistra. Ma è – sempre e comunque – un atto contro la nostra umanità.

La seconda ragione – la più rilevante da un punto di vista politico e storico – sta nel fatto che, stavolta, la campana suona, e suona a morto, non solo per rammentare a tutti noi il senso del nostro esser uomini, ma per la democrazia. E non solo per quella che illuminata nel 1776 da un principio – “All Men are Created Equal” – con molte buone ragioni ed altrettante e spesso feroci ambiguità ama definire se stessa “la più antica del mondo”. Charlie Kirk è stato assassinato nel pieno d’una guerra contro un sistema democratico della quale, con grande visibilità era stato, da vivo, parte integrante. E della quale da morto – morto assassinato – già è diventato, nelle vesti di martire, la bandiera insanguinata.

Charlie Kirk aveva fondato, nel lontano 2012, appena terminate le scuole superiori, Turning Point Usa, un’associazione giovanile ultraconservatrice subito affermatasi, conquistando milioni di seguaci, nei nuovi canali della comunicazione digitale; e quindi diventata, a partire da 2015, il più importante trait d’union tra l’insorgente culto MAGA e nuove generazioni in larga parte (allora e ancor oggi) orientate a sinistra. All’opposto dell’oggetto del culto – Donald J. Trump, già 45esimo e ora 47esimo presidente degli Stati Uniti – Kirk era un personaggio d’indubbia eloquenza. E, nella sua naturale, irruente eloquenza, amava il confronto, il dibattito. “Prove Me Wrong”, provate che ho torto, era il suo motto. Questo era il titolo della manifestazione durante la quale ha incontrato la morte. E questo era il grido con il quale, spesso, si presentava con coraggio e bravura in dibattiti con i suoi più odiati rivali.

Aveva un grande talento, Charlie Kirk: quello di presentarsi, in qualunque circostanza, come l’alternativa ad uno status quo dominato dalla “cultura woke”. Come una forza di “liberazione”. E questa era, probabilmente, la vera chiave del suo successo. Amava parlare di First Emendment (la parte della Costituzione che sancisce la “libertà di parola”), Charlie Kirk. E, in particolare, della ‘libertà di parola” a suo dire negata (negata alla destra) nelle Università ed in ogni anfratto del “Deep State”, lo Stato Profondo del quale, a tratti con accenti decisamente “lenisti” e nel nome di quella “libertà”, Kirk invocava l’abbattimento. Ma il suo bagaglio ideologico era, in tutto e per tutto, quello strutturalmente, volgarmente illiberale del movimento MAGA.

L’America che, nel nome di Donald Trump, Kirk voleva “far tornare grande” era (è) un’America rigorosamente ingabbiata nella logica del nazionalismo cristiano, della supremazia bianca, della xenofobia e del culto (un culto che, nel caso di Donald Trump, quasi sempre si manifesta in forma caricaturale) del Grande e messianico Leader. Era (ed è), quella di Kirk, un’America nella quale il futurismo esaltato delle nuove tecnologie si sposa con (neppure troppo aggiornate) preilluministiche forme di neofeudalesimo e con le più antiche e viete, bigotte forme di oscurantismo. È un’America che padrona del potere – o, meglio: ripulito il “Deep State” dalla zavorra della democrazia – s’appresta, agitando il molto indistinto fantasma del “wokeism”, a chiudere biblioteche, a minare la libertà di stampa e d’insegnamento nelle università, a bruciar libri (non solo metaforicamente) e a riscrivere a sua immagine la propria Storia (vedi, a tal proposito, giusto per un assaggio, il testo di questo recentissimo decreto presidenziale).

Narrano le cronache come, nell’istante in cui è stato colpito dalla pallottola che lo ha ucciso, Charlie Kirk stesse – macabra ironia della storia – per rispondere ad una domanda che riguardava le stragi con armi da guerra che da tempo, come una malattia cronica, affliggono gli Stati Uniti (l’ultima quasi in contemporanea con l’attentato della Utah Valley University, nella Evergreen High School di Denver, in Colorado, due morti e sedici feriti). E molto probabile – quasi scontato – è che Kirk avrebbe risposto a questa domanda con gli stessi argomenti e le stesse parole di sempre. Ovvero: con una incondizionata, religiosamente totale difesa del famoso “Second Emendment” della Costituzione, quello che (in realtà in termini molto meno assolutisti di quelli che la destra Usa e la NRA pretendono) garantisce la “libertà di portare armi”. Una libertà che, come amava ripetere durante i suoi “Prove Me Wrong”, è la base, lo strumento di difesa d’ogni altra libertà. E che, in quanto tale, valeva bene “il sacrificio di qualche vita”.

Ancora non si sa – e forse mai si saprà – da chi e perché sia stato ucciso Charlie Kirk. Forse anche lui è una vittima – una di quelle che “valgono la pena” in difesa del “Second Emendment” – del periodico, reiterato e tragico incontro tra la follia di un individuo e la follia di un paese che permette la libera circolazione di armi da guerra. O forse no. La precisione con la quale Kirk è stato colpito autorizza il sospetto d’una molto più “professionale”, mirata forma di omicidio, con tutte le inevitabili appendici di possibili (e più o meno fantasiose) teorie cospirative. Quella dell’auto attentato – una sorta di incendio del Reichstag, made in Trump America – ovviamente inclusa.

Di appurate – tornando alla poesia di John Donne – non ci sono, al momento, che due cose. La prima: che un uomo è morto e che, morendo di morte violenta, ha privato tutti noi, amici e nemici, di una parte della nostra umanità. E, la seconda, che quest’uomo assassinato – e probabilmente assassinato per le sue idee – è diventato, nelle vesti di martire, parte della liturgia di un assalto alla democrazia americana. Violenza che alimenta violenza.

Questo assalto lo si potrebbe raccontare partendo – a proposito di violenza politica – dal 6 gennaio 2021, quando Trump lanciò le sue truppe contro Capitol Hill con il dichiarato fine di impedire (prima volta nella Storia della Nazione) il pacifico passaggio dei poteri. E questo sulla base di accuse di frodi elettorali da subito rivelatesi non solo false ma, spesso, false fino al ridicolo. E lo si potrebbe continuare, questo racconto, descrivendo nei dettagli – decreto presidenziale dopo decreto presidenziale – il sistematico attacco che, con la copertura di inesistenti “emergenze”, Donald Trump ha in questo primi otto mesi di governo condotto contro ogni aspetto della istituzionalità democratica.

O, ancora, si potrebbero narrare cause ed effetti della spettacolare trasformazione della ICE, la polizia di frontiera, in una sorta di Gestapo che, al fine di liberare il paese da una “invasione nemica”, va in questi mesi, con eroiche gesta, arrestando e deportando giardinieri, muratori, manovali, lavapiatti e braccianti un po’ in tutto il paese. C’è però un recentissimo episodio, vecchio di solo una dozzina di giorni che, con grande e molto immediata efficacia, riassume il tutto.

Come si sa Donald Trump ha di recente, nel nome della “lotta alla criminalità”, militarizzato la capitale, Washington D.C. E va minacciando di fare altrettanto con molte altre metropoli, a cominciare da Chicago. Il tutto giusto mentre, per misteriose ragioni – misteriose a prima vista bizzarre, considerato che Trump va ossessivamente reclamando un Nobel per la Pace – decideva di cambiare il nome del Dipartimento della Difesa (il mitico Pentagono) in Dipartimento della Guerra. Or bene: lo stesso Trump ha provveduto, domenica scorsa, a svelare l’arcano pubblicando sul suo social Truth un “meme” che, chiaramente ispirato al celebre film di Francis Ford Coppola Apocalypse Now e intitolato “Chipocalypse Now”, è a suo modo un trasparente programma politico. In questo meme, Trump rappresenta se stesso – sullo sfondo della skyline di Chicago e di un cielo infuocato attraversato dalle sagome di neri elicotteri (quelli che nel film arrivavano al suono della wagneriana e da Hitler tanto amata Cavalcata delle Valchirie – nelle vesti del Liutenant Colonel Kilgore, il personaggio che, nel capolavoro di Coppola magistralmente interpretato da Robert Duval, pronuncia la famosa battuta: I love the smell of napalm in the morning, adoro l’odore del napalm alla mattina. L’odore del napalm diventa, nel caso del Trump-Kilgore, “l’odore delle deportazioni”. E questo con una molto sinistra aggiunta: “Chicago presto capirà per quale ragione il Dipartimento della Difesa è diventato Dipartimento della guerra”.

È naturalmente possibile – essendo Trump notoriamente benedetto da una abissale ignoranza – che l’autore del meme non sapesse o che, sapendolo, non avesse capito come Kilgore fosse, nel film di Coppola, un repellente criminale di guerra. Però questo resta, di fatto, il messaggio: Donald Trump si appresta – in perfetta linea con tutti i tiranni, grandi e piccoli, che hanno infangato la Storia del mondo – a dichiarare guerra al suo stesso popolo. E lo fa con l’inequivocabile, dichiarata attitudine di un criminale di guerra. Di questa America Charlie Kirk era parte. E di questa America – quali che siano le ragioni di un omicidio che non può avere umana ragione – è oggi il simbolo-martire. Suona la campana. Suona, e suona a morto, per la democrazia. Suona ovunque, forte e chiara. E suona per tutti noi…

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