Parità di genere, respinto il ricorso dell’Ordine degli architetti: una figuraccia contro il buonsenso
- Postato il 26 agosto 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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In questo afoso finale d’estate si consuma una farsa. Piccola nelle proporzioni, significativa nei contenuti. Il 12 agosto 2025 il Tar del Lazio ha respinto il ricorso presentato dall’Ordine degli Architetti di Roma – spalleggiato da altri 48 Ordini territoriali – contro il nuovo regolamento elettorale emanato dal Cnappc. Due le “intollerabili” novità impugnate: il voto telematico e – udite udite – l’introduzione di norme a tutela della parità di genere nei Consigli, come previsto dall’articolo 51 della Costituzione.
Un passo atteso da anni, necessario per portare la professione degli architetti nel XXI secolo e adeguarla a una società che non può più tollerare organismi di rappresentanza cronicamente sbilanciati. Una società in cui anche le donne – finora sistematicamente sottorappresentate negli organismi di categoria – possano finalmente accedere, in condizioni di reale parità, alle cariche istituzionali.
Ci voleva coraggio per contestare una norma che, prima ancora di essere giusta, è talmente di buon senso da risultare quasi imbarazzante doverla spiegare: il voto telematico amplia la partecipazione, azzera i contenziosi, neutralizza le “creatività” interpretative sulle schede ed è già stato ampiamente sperimentato durante la pandemia. Le norme sulla parità, invece, colmano un vuoto legislativo non più difendibile: il d.P.R. 169/2005 ignorava totalmente il principio di equa rappresentanza.
Eppure, l’Ordine di Roma – già criticato in passato per posizioni poco compatibili con i principi di parità – quel coraggio l’ha trovato. Trascinando con sé quasi metà degli Ordini territoriali, ha impugnato il regolamento con argomentazioni al limite del grottesco. Il cuore dell’obiezione? Secondo i ricorrenti, il Cnappc avrebbe “abusato” dei propri poteri prevedendo il solo voto telematico, privando gli elettori del fondamentale “contatto fisico” con l’urna. Come se la prossimità epidermica al seggio fosse garanzia di democrazia.
Si è arrivati così a contestare una norma che promuove inclusione, trasparenza e legalità, reclamando i vecchi rituali – strette di mano, sguardi d’intesa – che per anni hanno garantito la sopravvivenza di assetti mai davvero messi in discussione. Una battaglia pretestuosa, tanto da far pensare che il vero obiettivo fosse un altro.
Lo sostengono in molti, e lo dice senza giri di parole l’architetto Aldo Olivo sui social: il ricorso – zeppo di cavilli sul voto telematico – è stato solo un escamotage per tentare di rinviare le elezioni locali e arrivare a quelle nazionali con pacchetti di consensi già blindati.
Un’operazione cinica e irresponsabile, che non ha esitato ad accantonare e sacrificare la norma della parità di genere pur di preservare rendite, poltrone ed equilibri interni ormai consolidati e indifendibili.
Il ricorso, per di più, è stato finanziato con risorse pubbliche: i soldi delle architette e degli architetti, comprese quelle professioniste che di quell’esclusione sarebbero state le prime a pagare il prezzo.
Se il Tar avesse accolto la richiesta di sospensiva, oggi si voterebbe con regole in aperta violazione dei criteri di equa rappresentanza, con l’inevitabile conseguenza di penalizzare — ancora una volta — le donne. La sentenza del Tar, però, è stata netta: nessuna delle obiezioni ha retto. Il regolamento è legittimo, conforme alla Costituzione e coerente con le esigenze del presente.
Il risultato? Un colpo durissimo per i promotori del ricorso. Una figuraccia. E, soprattutto, lo smascheramento di un tentativo maldestro di aggirare il cambiamento. Resta ora da vedere se gli Ordini coinvolti avranno davvero il coraggio di ricorrere anche al Consiglio di Stato contro la sentenza. Sarebbe, in fondo, un gesto perfettamente coerente con la strategia adottata fin qui: ostacolare il cambiamento senza mai dichiararlo apertamente.
Perché la resistenza al cambiamento non si proclama: si annida nei formalismi, si mimetizza nel linguaggio neutro delle procedure, si traveste da zelo istituzionale. Ma, al netto della retorica, il messaggio che ne emerge è fin troppo chiaro.
Questa vicenda, infatti, non è solo una disputa regolamentare. È il sintomo di un’incapacità culturale profonda, che merita attenzione – e forse anche un’indagine – da parte del Ministero della Giustizia: l’incapacità, da parte di una fetta della classe dirigente, di accettare che la parità di genere non è più un’opzione né una concessione, ma un dovere costituzionale, e che certi assetti, interamente maschili, non sono più giustificabili.
Né si può continuare a ignorare la resistenza passiva di chi, nei fatti, ostacola l’attuazione dei principi fondamentali pur di non perdere posizioni consolidate. Perché non si tratta di regole interne a una categoria. Si tratta di democrazia. E della sua credibilità.
Ps. Per completezza, ecco tutti gli Ordini degli Architetti che hanno aderito al ricorso contro il Cnappc: Roma, Potenza, Parma, Caserta, Cosenza, Forlì-Cesena, Rimini, Perugia, Teramo, Torino, Vibo Valentia, Siracusa, Matera, Napoli, Chieti, Agrigento, Enna, Cremona, Foggia, Catanzaro, Monza, Benevento, Brindisi, Palermo, Crotone, Mantova, Ragusa, Trapani, Reggio Calabria, Latina, Vercelli, Cuneo, Alessandria, Lodi, Catania, Macerata, Messina, Ravenna, Vicenza, Salerno, Asti, Novara e Verbano-Cusio-Ossola, Caltanissetta, Frosinone, Ancona, Campobasso, Fermo.
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