Perché, nonostante ritardi e poca trasparenza, diamo un fiume di soldi pubblici alle Ferrovie?

  • Postato il 23 luglio 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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Perché un fiume di soldi pubblici alle ferrovie? Intanto, vediamo quanti sono questi soldi e come sono dati. Si tratta di circa 10 miliardi all’anno, ma si sta andando verso i 15 miliardi e oltre, e questo solo per le Ferrovie dello Stato (FSI). Una SpA tutta pubblica, che quindi non può fallire, e di fatto non può operare in perdita (le SpA devono fare profitti). I soldi arrivano sempre, quali siano le performances dell’azienda.

E l’aspetto più grave dei sussidi alle ferrovie non è tanto il loro ammontare, ma il fatto che gli importi non vengono mai resi pubblici in modo trasparente.

Vengono invece dichiarati profitti (privi di senso economico, venendo a valle di sussidi dieci volte maggiori), e fantastici piani di investimento (100 miliardi!) curando di non chiarire che si tratta di soldi pubblici, spesi per di più “a fondo perduto”. Infatti per gli investimenti lo Stato non richiede né che siano ammortizzati, né che ne siano valutati i risultati, cioè se siano stati un successo o meno rispetto ai soldi spesi. E anche per i soldi pubblici erogati “in conto esercizio”, cioè per far andare i treni, non c’è dubbio che si tratti di sussidi e non di “corrispettivi” per i risultati ottenuti. Questo è dimostrato dal fatto che il totale è praticamente sempre sufficiente a mostrare un po’ di profitti, così tutti sono contenti.

Ma perché gli diamo così tanti soldi? Nell’800, perché non c’erano alternative per muoversi. Dopo la Seconda guerra mondiale, per l’occupazione e perché pochi avevano la macchina e l’aereo costava troppo. Poi è arrivata la motorizzazione di massa, e gli addetti alle ferrovie sono molto diminuiti: è diventata un’impresa ad alta “intensità di capitale”. E i più poveri oggi viaggiano su lenti autobus, che rimangono meno cari del treno, anche se sono tassati invece che sussidiati.

Allora si decise che i soldi andavano dati alle ferrovie per l’ambiente, e la congestione stradale nelle aree più dense.

Per l’ambiente, si trattava di un’idea poco difendibile. Si pensi, solo a titolo di esempio, che se si raddoppiasse il trasporto merci su ferro, si avrebbe una riduzione del CO2 emesso inferiore all’1% del totale (con costi astronomici per le casse pubbliche). Per l’ambiente, sarebbe stato comunque più efficiente far pagare agli inquinatori (tutti, ma soprattutto quelli dei settori inquinanti meno tassati), e per la congestione imporre tariffe apposite là dove necessario, considerato anche la perdurante crisi delle nostre finanze.

Ma era poco popolare, meglio spendere di più, così si aumentava il consenso, che va sempre d’accordo con le spese, e mai con i risparmi. Poiché è ora alle viste una diminuzione radicale anche delle motivazioni ambientali, con l’elettrificazione dei veicoli stradali, si sta pensando di trovare anche giustificazioni di tipo militare.
Il che è grottesco: se c’è un modo di trasporto facilissimo da interrompere, è quello ferroviario.

Ma perché nonostante tutti questi soldi le ferrovie funzionano piuttosto male, con ritardi e interruzioni frequenti? Innanzitutto, per i troppi soldi da spendere in fretta: con il Pnrr si sono aperti centinaia di cantieri tutti in una volta, con una programmazione e gestione probabilmente inadeguata. In secondo luogo, perché nessuno risponde della qualità dei servizi. Per i treni a lunga distanza, soprattutto AV, le cause sono di solito legate all’infrastruttura, e non ai treni che ci viaggiano su.

Si dice che le linee sono sature, c’è troppo traffico, ma non sembra vero. In Giappone c’è un treno AV ogni tre minuti, e ritardi di oltre un minuto sono oggetto di indagine. E l’infrastruttura ferroviaria è gestita senza vere pressioni concorrenziali: i soldi arrivano sempre e comunque, il management non sembra mai veramente soffrire le conseguenze delle disfunzioni che si verificano. Per i servizi locali, non c’è concorrenza: le gare non si fanno, o le vince comunque chi c’era già, cioè Trenitalia.

In Germania hanno fatto gare vere, i servizi sono migliorati, ed i costi pubblici si sono molto ridotti. Si cita invece l’Inghilterra, dove si stanno “ri-pubblicizzando” i servizi ferroviari. Ma le motivazioni sembrano soprattutto ideologiche, i numeri non confortano questo programma dei laburisti. La concorrenza ha funzionato bene in Italia ed in Spagna nell’Alta Velocità, e ovunque in Europa nel settore merci.

Che fare? Le soluzioni sono semplici e sicure: fare gare vere per i servizi locali (oggi una legge assurda costringe a chiedere il benestare alle autorità regionali, che ovviamente, sicure di ricevere i soldi dallo Stato, dicono sempre di no). Poi privatizzare l’Alta Velocità, dove la concorrenza c’è, ha funzionato bene, e non ci sono particolari istanze sociali. Così si metterebbero anche in condizioni di parità i concorrenti: oggi quello pubblico non può fallire.

Lo stesso, e per gli stessi motivi, vale per il settore merci.

Queste idee non sono stravaganti: persino il presidente dell’Autorità di Regolazione dei Trasporti (ART), ente notoriamente molto prudente verso il settore ferroviario, si è espresso in favore di soluzioni di questo tipo.

Per l’infrastruttura, che è un “monopolio naturale”, innanzitutto bisogna fare analisi indipendenti della convenienza socioeconomica degli investimenti (oggi sono affidate alle stesse ferrovie, in evidente conflitto di interessi). In particolare, si progettano e si realizzano raddoppi di linee che sono lontanissime dalla saturazione, apparentemente solo in quanto si dispone delle risorse per farlo.

Ma queste analisi “terze” andrebbero fatte anche per molte gestioni (oggi si fanno andare treni che costano allo Stato un multiplo che portare quei passeggeri con degli autobus, anche elettrici. Per prendere l’autobus si potrebbe pagare i viaggiatori, e non poco!).

Infine, si dovrebbero introdurre incentivi molto più solidi all’efficienza anche per la gestione dell’infrastruttura, con una tecnica nota come “yardstick competition”: si stabiliscono standard di performance per singoli segmenti, o regioni, della rete, e si premiano (o si retrocedono) i dirigenti in funzione dei risultati raggiunti. Si simula cioè, per quanto possibile, la pressione di un mercato concorrenziale, ma questa volta al fine di migliorare un servizio pubblico.

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