Pressione fiscale in salita perché aumenta l’occupazione? La lettura del governo non regge
- Postato il 14 ottobre 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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Il governo continua a ripetere che la pressione fiscale è salita nel 2024 perché è aumentata l’occupazione. Come già chiarito su lavoce.info, la spiegazione va cercata altrove ed è molto meno positiva: è legata a un sistema fiscale mal disegnato.
di Massimo Bordignon e Leonzio Rizzo (fonte: lavoce.info)
Come il governo spiega l’aumento della pressione fiscale
Il governo continua a insistere sul fatto che l’aumento della pressione fiscale, in ulteriore crescita nel 2025 rispetto al 2024 secondo il Documento programmatico di finanza pubblica, sia in realtà un fatto positivo, in quanto dovuto all’aumento dell’occupazione; l’ultimo esempio in ordine di tempo è l’intervento del ministro Giorgetti nell’audizione in Parlamento sulla manovra economica. Vale la pena dunque ripetere che la pressione fiscale è un rapporto tra entrate e Pil e che i maggiori redditi degli occupati entrano anche nel Pil, cioè nel denominatore del rapporto. Se la pressione fiscale cresce, è perché i redditi dei lavoratori sono tassati di più degli altri redditi. Per spiegarlo meglio, è utile una rivisitazione di un nostro precedente articolo sul tema.
I dati sui conti pubblici
Avevamo già ricordato alcuni mesi fa che, secondo il bollettino Istat del 3 marzo 2025, i conti pubblici nel 2024 erano andati meglio del previsto, benché per l’economia non si potesse dire altrettanto. La crescita economica in termini reali era stata uguale a quella asfittica del 2023, un magro +0,7 per cento e solo perché nel 2024 si era lavorato due giorni in più dell’anno prima. Ciononostante, il deficit era migliorato nettamente, passando dal 7,2 al 3,4 per cento del Pil, molto vicino al fatidico 3 per cento delle regole europee. Il saldo primario (cioè, entrate meno spese al netto di quella per interessi) era diventato perfino positivo, allo 0,4 per cento del Pil.
Dietro al miglioramento, secondo l’Istat, c’erano sostanzialmente due ragioni. La prima è la riduzione delle spese della pubblica amministrazione per circa 41 miliardi, dovuta in particolare al crollo dei contributi agli investimenti, categoria in cui si collocavano le agevolazioni edilizie per il Superbonus, di fatto sospese da marzo. La seconda è il buon andamento delle entrate. Erano cresciute in termini nominali di ben il 5,7 per cento nel 2024 rispetto al 2023, mentre il Pil in termini nominali era cresciuto di solo il 2,9 per cento, cosicché la pressione fiscale, il rapporto tra i due, era salita di 1,2 punti, dal 41,4 al 42,6 per cento.
Per capirsi, lo Stato ha incassato 26 miliardi in più nel 2024 di quanto avrebbe raccolto se la pressione fiscale fosse rimasta costante al livello del 2023. Sette dei 26 miliardi erano facilmente spiegabili, è il rimbalzo delle accise dovuto all’eliminazione nel 2024 di tutti i bonus contro il caro energia introdotti a partire dal 2022. Ma il resto? Come mai c’è stato l’incremento della pressione fiscale, visto che le aliquote di imposta sono rimaste più o meno costanti?
Perché è cresciuta la pressione fiscale
Molti commentatori, inclusa la nostra presidente del Consiglio, indicavano il motivo nel buon andamento della occupazione. In effetti, nonostante la scarsa vivacità del Pil, i lavoratori dipendenti (misurati in termini di unità di lavoro equivalenti) erano cresciuti del 2,3 per cento e i loro redditi del 5,2 per cento. Ma perché mai questo dovrebbe far aumentare la pressione fiscale? Quest’ultima è un rapporto; e se le maggiori imposte e contributi pagati dai nuovi e vecchi lavoratori ne fanno crescere il numeratore, i loro maggiori redditi entrano nel Pil e ne fanno dunque crescere il denominatore. Perché allora il rapporto sale? Ci sono in effetti un paio di ragioni, ahimè molto meno positive dell’incremento dell’occupazione.
La prima, banalmente, è che i redditi da lavoro dipendente sono tassati molto più degli altri redditi. Dai dati Istat, fatto 100 il totale delle entrate fiscali, che includono sia le imposte che i contributi, 49 sono risorse che provengono dai salari, 17 dai profitti (in cui sono compresi i redditi dei lavoratori autonomi e i loro contributi), 33 arrivano invece dalle imposte indirette. Questi numeri devono essere confrontati con la quota di ciascuna componente sul Pil. Benché contribuiscano quasi al 50 delle entrate, i salari costituiscono solo il 38 per cento del Pil, contro il 50 per cento dei profitti e del 12 per cento delle imposte indirette. Meccanicamente, significa che, quando crescono i salari, cresce anche il Pil, ma le entrate crescono ancora di più, producendo un inasprimento della pressione fiscale.
Accade l’opposto quando invece sono i profitti a crescere, che contano di più nel Pil ma pagano percentualmente molto meno imposte e contributi. Questo in parte spiega quanto successo in Italia nel 2024. In quell’anno, i profitti hanno subito una battuta d’arresto (si sono in realtà lievemente ridotti, -0,013 per cento), dopo la forte crescita degli anni precedenti, mentre i salari sono cresciuti, sia perché sono aumentati gli occupati, sia perché è salito il loro salario medio.
La progressività dell’Irpef
C’è anche una seconda ragione, ancora più deprimente della prima, dietro la crescita della pressione fiscale nel 2024. I redditi da lavoro dipendente sono sottoposti a due forme di imposizione fiscale: i contributi, che sono un’imposta proporzionale, e l’Irpef, che è un’imposta progressiva. La progressività dell’imposta implica che via via che crescono, i redditi debbano essere sottoposti ad un’aliquota di imposta più elevata, o se si preferisce, che l’aliquota media dell’Irpef è crescente nel reddito. Si tratta di un principio di equità ben noto e generalmente accettato; contribuenti più ricchi devono trasferire una quota maggiore del proprio reddito allo Stato. Peccato, però, che riguardi solo i redditi da lavoro dipendente (e assimilati) che infatti costituiscono l’85 per cento della base imponibile dell’Irpef.
Gli altri redditi sono in larghissima misura sottratti alla base imponibile dell’Irpef e tassati a parte, con aliquote proporzionali, compresi i redditi degli autonomi che hanno optato per la flat tax. Significa che, almeno in qualche misura, i maggiori redditi ottenuti dai lavoratori dipendenti nel 2024 sono stati tassati ad aliquote medie più elevate rispetto al 2023. Non è però possibile stabilire quanto al fenomeno abbiano contribuito i nuovi occupati, visto che non è noto a che stipendio in media siano stati assunti.
Sicuramente l’aumento dei redditi degli occupati già esistenti, dovuto ai rinnovi dei contratti (nel caso in cui si sia verificato), ha innalzato l’aliquota media rispetto al 2023, contribuendo quindi a un incremento della pressione fiscale media sul reddito da lavoro dipendente, nonostante di fatto si tratti solo di recupero (anche parziale) del potere d’acquisto. Ma per il fisco questo non conta e gli incrementi salariali sono tutti conteggiati come incrementi di reddito effettivo e tassati ad aliquota superiore. Questo ha generato parte del fenomeno del fiscal drag, di cui si è già discusso, che per l’appunto è stato anche causa dell’aumento della pressione fiscale.
È dunque assai probabile che una parte dell’incremento salariale del 2024 sia dovuto al recupero di potere d’acquisto che, combinato con la progressività del sistema, aumenta la quota versare al fisco. Spiegato l’arcano della crescita della pressione fiscale nel 2024, resta un po’ di amaro in bocca.
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