Tre ragioni (più una) per cui convocare questo referendum è stato un errore
- Postato il 12 giugno 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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Credo che non ci sia nulla di più stupido in politica che interpretare i voti ai referendum come se fossero per l’elezione per il Parlamento. Il centrosinistra lo ha fatto costantemente prima del pronunciamento delle urne, danneggiando la campagna referendaria, e lo fa tuttora.
Nel 1985 il Pci promosse il referendum, voluto da Enrico Berlinguer morto un anno prima, contro il taglio alla scala mobile dei salari deciso dal governo di Bettino Craxi. Nonostante una campagna elettorale in totale isolamento, con tutto il sistema economico, politico e sindacale contrario, con la Cgil neutrale perché bloccata dal veto della componente socialista alleata dei miglioristi del Pci, alla fine il Sì raggiunse il 46% e quasi 16 milioni di voti. Che ovviamente il Pci non fece la sciocchezza di intestarsi.
Nel 2003 fui tra i promotori di un referendum che chiedeva di estendere la tutela contro il licenziamento ingiusto dell’articolo 18, ancora non distrutto da Monti e Renzi, anche ai lavoratori delle aziende sotto i 15 dipendenti. Per il Sì c’erano la Fiom, il sindacalismo di base e molto tiepidamente la Cgil, mentre sul piano politico c’era solo Rifondazione comunista. L’antenato del Pd, i Ds, assieme alla Margherita di Prodi e alla destra, condusse una intensissima campagna per l’astensione. Che fu vincente, il quorum non fu raggiunto anche se circa 11 milioni di persone andarono a votare Sì. E a nessuno venne in mente di fare conteggi politici arditi.
I referendum si vincono o si perdono, punto e basta. E i referendum per migliorare le condizioni e i diritti del lavoro sono stati finora sempre battuti. Bisognava saperlo.
Quest’ultima consultazione referendaria in realtà è nata monca, perché è venuto a mancare il quesito più coinvolgente, quello sull’autonomia differenziata. E questo per responsabilità del centrosinistra e del Pd. Perché la controriforma costituzionale del Titolo V della Costituzione, voluta nel 2000 dal centrosinistra, ha posto le basi per quell’autonomia differenziata che il governo Meloni ha potuto presentare come legge ordinaria e non come legge costituzionale. E perché il Pd, con i suoi presidenti di Regione, ha boicottato il suo stesso referendum. Infatti le regioni di centrosinistra sono ricorse alle Corte Costituzionale contro la legge Calderoli, con la richiesta di modifiche parziali che sono state poi accolte, con la conseguente non ammissione del referendum sull’intera autonomia differenziata. Sono così rimasti in campo solo i referendum sul lavoro e sulla cittadinanza.
Per quanto riguarda il lavoro, convocare su di esso dei referendum è stato un errore per almeno tre ragioni.
La prima è che l’esperienza avrebbe dovuto insegnare che, in una condizione complessivamente degradata e frantumata del lavoro, sollevare singoli temi con un referendum incontra oggi una maggioranza indifferente o ostile, sulla quale possono fare buona leva le forze conservatrici e filo padronali.
La seconda è che la Cgil non ha potuto credibilmente usare per un referendum quel linguaggio e quella pratica che ha in gran parte e da tempo abbandonato nella sua azione concreta. La mancata (vera e non di facciata) opposizione alla legge Fornero e al Jobs act quando furono varati, la sottoscrizione di contratti al ribasso ignorando l’opinione dei lavoratori (con i ferrovieri ciò è avvenuto persino durante la compagna referendaria), e soprattutto la continua pratica concertativa e complice con le imprese, condotta da tutto il sindacalismo confederale Cgil compresa, hanno creato passività, rassegnazione e disinteresse proprio nel mondo del lavoro.
In terzo luogo bisogna dire che il centrosinistra e il Pd hanno fatto tutto il possibile per perdere i referendum. Prima di tutto non spiegando perché volevano abrogare leggi che loro stessi avevano varato e che nei loro governi successivi non avevano mai messo in discussione. Poi stravolgendo la campagna referendaria e trasformandola in un sondaggio (in realtà perso) contro il governo Meloni. Tutti sanno che per vincere un referendum bisogna essere trasversali, cioè chiamare al voto sul tema concreto anche elettori di parti diverse dalla tua. Tutti i referendum vincenti lo sono stati per questo. Lo sanno tutti tranne Schlein, Conte e Fratoianni-Bonelli.
Infine bisogna dire che se la sconfitta annunciata sul lavoro ha fatto danni parziali, quella sulla cittadinanza ne ha combinati di enormi, perché in quel caso la distanza tra il Sì e il No è stata meno netta. Perché ha fatto capire che se gli elettori di Meloni e Salvini non si fossero astenuti, allora si sarebbe sì raggiunto il quorum, ma il quesito sulla cittadinanza sarebbe molto probabilmente stato bocciato. Come succederebbe se qualche follia spingesse a organizzare un referendum sulla legge sulla sicurezza.
La lezione dei referendum è che in Italia oggi non c’è una maggioranza elettorale progressista. Ci sono sì milioni di progressisti, come dimostra anche il voto, ma se li si illude che possano vincere contro la destra profonda del paese con scorciatoie elettorali in un sistema truccato, beh, li si condanna a delusioni e sconfitte sempre più smobilitanti. C’è bisogno di un duro e consapevole percorso di rottura con il passato e di lotta nel presente. Chi pensa di saltarlo con qualche furbizia, o finisce per copiare la destra o per alimentarla ancora di più.
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