Trump ha già perso la sua guerra commerciale con la Cina, ma la sua denuncia ha un fondamento reale

  • Postato il 13 maggio 2025
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Il quasi comico, se non fosse anche tragico, bluff tariffario di Trump verso la Cina è durato neanche un mese. Le super tariffe del 145% introdotte ad aprile saranno ridotte di comune accordo al 30%. L’imbroglio commerciale a danno dei cittadini Usa strombazzato da Trump si è sciolto come neve al sole.

Trump ha già perso la sua guerra commerciale e batte malamente in ritirata, mostrando tutte le debolezze dell’economia Usa. Queste nuove tariffe doganali a sconto saranno in grado di sostenere i molteplici scopi di Trump, dall’aumento delle entrate fiscali per gli americani alla riduzione del deficit commerciale? Sicuramente no, e tutto questo polverone mediatico è servito per rinforzare l’immagine pubblica di un Presidente che fa, anche se in realtà poco combina – se non per le sue finanze.

Eppure la denuncia di Trump ha un reale fondamento. Il commercio internazionale oggi è profondamente ingiusto, anche quello verso la Cina, ma non nel senso di Trump: piuttosto nella direzione opposta. A trarre beneficio (poco) non sono le imprese cinesi, ma quelle americane che sfruttano ampiamente la loro leva di potere. Vediamo perché.

Consideriamo un caso esemplare, quello delle scarpe da tempo libero, magari quelle bianche che abbiamo tutti, le sneakers. Concentrandoci sul mercato Usa, i dati ci dicono che il 95% delle scarpe vendute negli Usa è prodotto nel Sudest asiatico, con una quota del 59% detenuta dalla Cina. Quando costa un paio di scarpe alla produzione? Tenendo conto della materia prima, della manodopera e dei margini di profitto per l’impresa cinese siamo attorno ai 14 dollari. Poi ci sono le spese di trasporto e i vecchi dazi pre-Trump del 20%. Quindi, stando un po’ larghi, le scarpe prodotte in Cina mettono piede negli Usa a un costo di 25 dollari.

Però sugli scaffali, anche qui da noi, le troviamo ad un prezzo notevolmente superiore. Raramente scendono sotto i 100 dollari, o 100 euro. La differenza tra costo alla produzione e prezzo di vendita è stratosferica: qualcuno, cioè l’impresa committente, in genere una multinazionale nel nostro caso, ha lucrato un guadagno che parte dal 200% e arriva chissà dove. E questo vale anche per tutti gli altri prodotti importati a prezzi bassissimi dal Sudest asiatico.

Il trucco del capitalismo globalizzato è tutto qui: si produce in Cina dove lo sfruttamento è atroce (con salari di 5 dollari l’ora) ma si vende a prezzi domestici. Anche il vantaggio per i consumatori è minimo. Dove va questo fiume di denaro?

Qui la risposta è abbastanza semplice. Questo denaro sporco si trasforma in ingiusti e pingui profitti per le imprese americane grandi o piccole, che poi vengono diretti verso i mercati finanziari. In definitiva, i soldi “rubati” ai lavoratori cinesi si trasformano in brillanti performance dei valori azionari. I lavoratori sono sfruttati, ma gli azionisti, americani e non, brindano.

È questa la stortura del capitalismo globalizzato sulla quale involontariamente Trump ci porta a riflettere. Se questo è il contesto di riferimento, ecco perché allora le tariffe del 30% non cambieranno niente, se non la narcisistica retorica presidenziale. La differenza nei costi tra le economie è così grande che le tariffe non saranno in grado di cambiare il corso del commercio internazionale.

Forse, imprese come Apple rinunceranno ai loro corposi e ingiustificati profitti dei prodotti made in China, ora anche made in India. Ma, più probabilmente, assisteremo invece a un aumento dei prezzi a spese dei consumatori. Nel capitalismo globalizzato di oggi i consumatori contano poco, tanto comunque passivamente comprano, quello che conta sono i profitti per gli azionisti.

C’è modo di cambiare questa dinamica iniqua ed economicamente perversa del commercio internazionale che ha bisogno di uno sfruttamento ottocentesco del lavoro nei paesi poveri per realizzare super profitti? Non sarebbe meglio un’economia più normale, con salari dignitosi e profitti equi per tutti? Purtroppo c’è poco da fare, come a suo tempo insegnava Karl Marx, ora riscoperto e riletto.

Prima o dopo comincerà una dialettica sociale che sistemerà le cose. Anche in Cina qualcuno si stancherà di lavorare 10 ore al giorno per salari da fame, ma comunque più elevati di quelli pagati lavorando nei campi. Nel frattempo l’accumulazione originaria, come veniva un tempo chiamata la tragica fase iniziale del capitalismo, deve produrre i suoi effetti. Per cambiare, ci vorrebbe un’azione forte e solidale da parte dei consumatori, ma difficile da realizzare nella pratica, se non in alcuni casi particolari, come la rivolta contro il patron di Tesla.

Le basi per una svolta etica e consapevole ci sarebbero, ma manca la spinta dalla politica. L’economicismo di Trump, l’invenzione ottocentesca delle tariffe, non risolve. Risolverebbero invece veri accordi internazionali sulla tutela delle condizioni dei lavoratori e dei loro redditi, come pure sulla fiscalità internazionale per tassare le imprese multinazionali. Ma questo, a sua volta, ridurrebbe i profitti mercenari delle imprese del Nord del mondo.

Le virtù del capitalismo tradite dalla mancanza di libertà del capitalismo di Stato (Cina), e dall’avidità di quello di mercato (Usa), allora? Pare di sì, almeno fino a che questa giostra dell’ingiustizia economica continuerà a girare a spese di chi sta in basso.

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Il Fatto Quotidiano

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