“Una domenica senza fine”, la storia dei partigiani anarchici a cui la Liberazione italiana non bastava

  • Postato il 24 aprile 2025
  • Cultura
  • Di Il Fatto Quotidiano
  • 4 Visualizzazioni

È la domenica del 29 aprile, a Milano. La città – e l’Italia – è stata liberata dai nazifascisti, Benito Mussolini è stato ucciso il giorno prima e, nottetempo, il suo corpo, insieme a quelli dell’amante Clara Petacci e di altri 16 giustiziati, è stato scaricato in piazzale Loreto. Nel capoluogo si attende, a momenti, l’arrivo dell’esercito statunitense. Intanto dalle prime ore dall’alba migliaia di persone si muovono in un’unica direzione: piazzale Loreto, appunto, luogo dell’eccidio di 15 partigiani, meno di un anno prima, e ora palcoscenico finale del burattinaio che per più di un ventennio ha oppresso il Paese e di cui, ora, non resta che il fantoccio violato. La marea di “vecchi, bambini, donne, reduci, fascisti pentiti, oppositori dell’ultimo minuto, irriducibili e voltagabbana, menefreghisti e curiosi” è diretta lì. Salvo tre partigiani anarchici, che partiti dal quartiere di Affori vanno, di fatto, controcorrente. Hanno una missione, perché per loro la Liberazione italiana non è l’atto conclusivo, bensì un tassello intermedio nel processo di redenzione di tutti i popoli. E quella missione, da compiere proprio quella domenica, ha un epilogo: rovesciare Francisco Franco.

Una domenica senza fine, edito da Sem (18 euro, 205 pp.), è il nuovo libro del giornalista Paolo Maggioni. Si tratta di un romanzo storico, basato sull’incredibile storia – sconosciuta ai più – dell’anarchico spagnolo Laureano Cerrada Santos. Maggioni è partito dalle poche righe sul suo conto di Quelli che Milano di Giancarlo Ascari e Matteo Guarnaccia. Da lì la non facile ricerca di altre fonti sulla brigata anarchica Bruzzi Malatesta e sul falsario (che nel romanzo prenderà il nome di Agustino Barrajas, detto Carnera) che, da Milano, voleva fare la guerra al dittatore spagnolo senza sparare un solo colpo di fucile. Insieme a Cerrada Santos/Carnera, si muoveranno altri personaggi – questi sì, inventati – accomunati dal tratto distintivo di ricoprire i ruoli-emblema di quel momento. E, dunque, della Storia. Due su tutti: la tranviera Marta Ripoldi, vedova e staffetta (nome di battaglia, Scheggia); e lo sconfitto Daniele Colpani, la Voce della propaganda mussoliniana del media all’epoca più diffuso, la radio. Il loro destino si sovrapporrà per breve tempo, in un incrocio qualsiasi della città, come per breve tempo e in un incrocio qualsiasi della Storia si sono sovrapposte le linee di senso di chi scelse l’antifascismo e chi, al contrario, la fedeltà al Duce.

Ciò che lascia Una domenica senza fine, in un susseguirsi di dialoghi e di azioni che hanno poco dell’improvvisazione, della casualità, ma che sono già cristallizzati nel divenire che si è fatto Storia, è il senso di sconfitta privata, personale, dei singoli protagonisti di quella vicenda. E in un senso più ampio – a posteriori – di sconfitta collettiva di un Paese che non è mai riuscito a fare i conti col proprio passato. Un Paese, parafrasando Winston Chuchill, composto un giorno da 45 milioni di fascisti e, il giorno dopo, da 45 milioni di antifascisti.

Mail: a.marzocchi@ilfattoquotidiano.it

L'articolo “Una domenica senza fine”, la storia dei partigiani anarchici a cui la Liberazione italiana non bastava proviene da Il Fatto Quotidiano.

Autore
Il Fatto Quotidiano

Potrebbero anche piacerti