Unical: Hiv/Aids, la ricerca che ricostruisce e riscrive la storia del fenomeno

  • Postato il 26 ottobre 2025
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Il Quotidiano del Sud
Unical: Hiv/Aids, la ricerca che ricostruisce e riscrive la storia del fenomeno

L’UniCal parte di un network europeo; il professor Rovinello racconta la ricerca su Hiv/Aids. Martedì il seminario sul tema in aula Arrighi


Un fenomeno complesso e penetrante che cambiò per sempre la storia di tanti Paesi nel mondo. Questo fu l’Hiv/Aids. L’epidemia che una rete multidisciplinare di ricercatori sta cercando di ricostruire “unendo i puntini” di discorsi e narrazioni diverse, compresenti, a volte anche critiche e conflittuali tra di loro. L’Università della Calabria, insieme l’IMT di Lucca, l’Università di Firenze e quella di Pavia, è parte integrante di questo progetto nazionale – oggi confluito in un network di più ampio respiro europeo – che attraverso una vasta gamma di prospettive, si propone di studiare la malattia non solo come discorso medico sanitario, ma come un grande problema sociale, economico, politico, giuridico, che ha investito l’umanità in maniera massiccia e duratura.

Martedì prossimo il tema sbarcherà all’Unical, in aula Arrighi, alle 16.30 con “Between Past and Present: The Enduring History of Hiv/Aids”, un seminario che, con l’intervento di Giulia Sbaffi della Stirling University e partendo dal libro di Marion Aballéa (Université de Strasbourg) “Une histoire mondiale du sida (1981-2025)”, ragionerà in chiave interdisciplinare su una storia globale che, di fatto, non si è mai conclusa. Marco Rovinello, ordinario di Storia contemporanea al Dispes Unical e membro dell’European Hiv/Aids Research Network, racconta allora i “dietro le quinte” della ricerca, gli obiettivi, le metodologie e i contenuti di un’analisi che si muove tra nuove chiavi interpretative e la scoperta di evidenze che hanno ormai superato e rivoluzionato la lettura tradizionale del fenomeno.

Professore, parliamo del progetto.

«Il network riunisce circa una quarantina di studiosi di storia dell’Hiv/Aids provenienti da diversi Paesi europei. Si lavora su scala continentale. Questo perché una delle idee di fondo su cui ci si muove è che, dal punto di vista storiografico, si è guardato sempre al fenomeno in un’ottica tipicamente americana. L’analisi dell’Hiv/Aids relativa agli Stati Uniti è stata trapiantata tout court al contesto europeo e italiano. La nostra idea, invece, è che si tratta di un fenomeno molto diverso. Intanto, banalmente, dal punto di vista numerico. Gli Stati Uniti sono un Paese sì, molto più grande, ma in cui l’epidemia ha fatto centinaia di migliaia di morti e un numero ancora difficilmente stimabile di persone contagiate. Per dare un dato: quando nei primi anni ‘80 negli Usa si era già verificata l’esplosione dei casi, in Italia se ne contano davvero pochi. Poi c’è un problema epidemiologico: l’Hiv/Aids negli Stati Uniti, e soprattutto nella prima fase, è per definizione la “malattia dei gay”, associata a pratiche omosessuali. In Italia, invece, il veicolo principale di contagio, il comportamento a rischio per eccellenza è legato alla tossicodipendenza. In particolare l’eroina. Ancora, il sistema sanitario universalistico: pensare di potervi sovrapporre le dinamiche organizzative e la ratio di un Welfare state d’impianto americano significa travisare tutta una serie di dinamiche. E infine il tema dell’associazionismo. La comunità omosessuale dell’epoca, negli Usa, è un interlocutore fortissimo nella lotta al fenomeno, mentre da noi è meno impattante, più articolata al suo interno, conflittuale, e quindi va da sé che anche i protagonisti della storia cambiano radicalmente. Per tutte queste ragioni, si sta provando a “deamericanizzare” la questione».

Però c’è un fortissimo dialogo tra di voi.

«Sì, quello che stiamo facendo colpisce molto i colleghi americani. Sono stato a New York nel marzo scorso, per un seminario alla Columbia University. Quando ho detto che da noi l’Hiv/Aids è presto chiamata “la peste del duemila” mi hanno guardato come fossi un alieno. E la reazione è legittima: per loro l’Hiv/Aids è in qualche modo da considerarsi un fenomeno soprattutto degli anni ‘80. Da noi l’esplosione si verifica negli anni ‘90. La periodizzazione cambia. E poi, come dicevo, la loro lettura dell’Hiv/Aids si basa molto sulla forza dell’associazionismo. Sono partiti dall’assunto dell’immobilismo dello Stato. Uno dei paradigmi interpretativi è che l’amministrazione Reagan se ne sia lavata le mani per lungo tempo e che anche le amministrazioni successive, fino ad arrivare almeno a Bush, non abbiano fatto granché. Il che in parte è vero. Ma non è così in altri Paesi europei dove invece gli Stati hanno affrontato l’epidemia in maniera tempestiva, efficace, collaborativa, liberale. L’ Olanda, per dirne uno. Ma anche per lo stesso caso italiano – che finora è stato letto come un caso di ritardo, inazione, reticenza a intervenire – sta emergendo il contrario. Cioè sì, è vero, si poteva far prima. Però, stante la novità della sindrome, le difficoltà a identificare l’agente, un sistema sanitario nazionale costruito a fine anni ‘70, quindi praticamente neonato, noi abbiamo comunque una legge sull’Hiv/Aids del 1990. Vuol dire a meno di 10 anni dall’esplosione del problema a livello americano e a pochi anni dall’esplosione del problema in Italia. Qui il problema sorge dopo, di fatto non prima dell’85. Inoltre, non va sottovalutata l’azione delle Regioni. Stiamo lavorando nei loro archivi e la Lombardia, per esempio, ha un sacco di documentazione in termini di monitoraggio e di azione che risale, appunto, ai primi anni ‘80».

Quindi lavorate a tappeto regione per regione?

«Cerchiamo di farlo laddove gli archivi sono disponibili. E laddove riusciamo a intercettare interlocutori che possiamo intervistare. Abbiamo sentito primari, specialisti medici, ricercatori che per ragioni di servizio ed emergenziali si relazionavano con le istituzioni regionali. Quando non abbiamo archivi o funzionari che all’epoca lavoravano in quei contesti proviamo a ricostruire mediante le loro interlocuzioni più ragionevoli, per esempio con le associazioni, gli attivisti e i politici attivi in quei territori. Così emerge un quadro che, senza stemperare ritardi e inefficienze, ci offre una prospettiva più articolata rispetto a quella un po’ più banale, semplicistica e direi anche scorretta dell’assenza dello Stato o dell’assoluta inazione dello Stato».

Su quali ambiti avete riscontrato criticità maggiori?

«C’è il grande tema dei media. In Italia emerge un po’ lo stesso approccio adottato dalla storiografia: l’americanizzazione del discorso. Un caso che cito spesso è quello di una trasmissione di approfondimento dell’84. Della Rai. In mancanza di una documentazione audiovisiva registrata in Italia, la trasmissione costruisce tutto un dibattito sulla vicenda italiana, facendo scorrere però le immagini degli ospedali americani, le strade di San Francisco, creando così nell’osservatore un forte strabismo. E così capita in molti quotidiani. Un’amplificazione traslata del fenomeno. Peraltro, lavorando su scala regionale, emerge anche la discrasia tra stampa nazionale e stampa locale. Questa è più vicina al territorio, alle dinamiche reali dei contagi e legava sin da subito il fenomeno alla tossicodipendenza e alla criminalità. Nello stesso Corriere della Sera magari trovi la parte nazionale che dice una cosa e poi la parte milanese che va in tutt’altra direzione. Poi ci sono magazine che attraverso l’uso delle immagini a colori hanno un taglio ancora più sensazionalistico. C’è quindi un filone allarmistico, un filone americanizzato, un filone locale non meno sensazionalistico ma legato alla droga e alla criminalità. Abbiamo schedato finora qualcosa come oltre 10 mila articoli sull’Hiv/Aids. E il risultato è un discorso estremamente conflittuale, incoerente, complicato. Tv compresa. Anche questo è singolare: nella prima trasmissione che Maurizio Costanzo fa sul tema dopo la questione di Rocca Imperiale e dopo i primi casi pediatrici, quando monta la psicosi collettiva, lui mette alla sedia esperti di grande rilievo. Eppure, è palesemente in difficoltà ad orientarsi nell’identificarli dal punto di vista della specializzazione medica».

Ha accennato a Rocca Imperiale. Cos’è successo in Calabria?

«In molti Paesi l’evento che crea attenzione mediatica massiccia all’Hiv/Aids è la malattia e la morte di Rock Hudson. Attore, sex symbol americano, che poi si scopre essere anche omosessuale. In Italia due fattori invece hanno davvero modificato la percezione dell’Hiv/Aids: il primo è quello relativo ai casi pediatrici, per lo più figli di tossicodipendenti. L’altro è proprio Rocca Imperiale. Ce lo ha raccontato anche Grillini, l’allora presidente di Arcigay. All’epoca l’associazione organizzava i cosiddetti “Gaycamp”. E quell’anno, agosto 1985, il campeggio viene organizzato in Calabria, a Rocca Imperiale. Ma un gruppo di abitanti del posto, sostenuti dall’amministrazione locale, rifiuta ospitalità all’iniziativa considerando queste persone “pericolose” proprio perché identificati come “untori”. Grillini, a suo dire, si muove allora cercando di contattare il ministero degli Interni per avere l’intervento del prefetto e garantire lo svolgimento dell’attività. Riesce a parlare con il Capo di Gabinetto di Oscar Luigi Scalfaro. Lui interviene e l’iniziativa si svolge regolarmente. Per altro, l’allora responsabile dell’Istituto superiore di sanità, Rossi, viene invitato a fare un intervento per dissipare i pregiudizi. È in vacanza in Calabria. Si mette in macchina, arriva, fa questa conferenza chiarificatrice e tutta questa storia finisce con un “happy end”. Ma diventa un caso nazionale, oggetto di polemica politica, di tensione nell’opinione pubblica tanto che poi Costanzo farà la trasmissione nel settembre dello stesso anno».

Professore, voi siete storici che studiano l’Aids ma che hanno vissuto il Covid. Come vi ponete in merito?

«Ogni forma di riconduzione dell’Hiv/Aids al Covid e viceversa va presa con le pinze. Era diverso il mondo, diversa la trasmissione della malattia. L’Hiv/Aids si legava a sangue e sesso. Con tutta una serie di devianze e disagi sociali. Il rischio in cui si incorre è quello di giocare per affinità o, peggio ancora, per sovrapposizioni brutali. Con l’esplosione della nuova pandemia c’è stato un rifiorire di studi sulle epidemie. Il che è anche ragionevole: la storia si fa con le domande del presente. Ma il progetto copre volutamente il periodo dall’81 al 2019. Abbiamo messo una barriera nettissima, anche se molte delle persone che si sono spese in passato per l’Hiv/Aids sono le stesse che poi ci siamo ritrovati con il Covid. Penso a Galli. Montagnier. Lo spettro del condizionamento è metodologicamente la cosa a cui bisogna stare più accorti. Dal 2020 in poi sì, si parla di Aids sui giornali. Ma spesso come elemento di paragone. Questo poteva essere fuorviante nel ricostruire i discorsi sull’epidemia di Hiv/Aids».

Perché è importante una ricerca del genere e perché raccontarla agli studenti dell’Unical?

«Il Covid ci ha riportato sulla terra. Ci ha riportato ad un’umanità che con i virus deve fare i conti. E le esperienze epidemiche generano grandi svolte. Il Covid, dagli storici del futuro, sarà probabilmente considerato un evento periodizzante. Per una logica contorta e sbagliata fino a poco tempo fa, nei libri di scuola, la Spagnola non era nemmeno citata. Eppure ha fatto più morti della prima guerra mondiale. Con conseguenze dal punto di vista demografico, sociale, economico. Così L’Hiv/Aids. Parliamo di 40 milioni di morti in 40 anni. Studi recenti hanno dimostrato, ad esempio, che l’Hiv/Aids gioca un ruolo importante addirittura nel crollo del regime sovietico: è stato uno degli argomenti utilizzati dai movimenti nazionalisti baltici per contestare il governo di Mosca e uno dei fattori che ne ha minato la credibilità agli occhi della popolazione. Ma non è solo la rilevanza storica. Abbiamo organizzato tutta una serie di iniziative a Lucca, a Pisa, a Copenaghen, ad Amsterdam e abbiamo deciso che fosse giusto e utile sbarcare anche all’Unical. Perché, non dimentichiamo mai, che questa è un’epidemia che esiste ancora e non ha smesso di colpire. Il calo dell’attenzione, insieme all’idea che si tratti ormai di una malattia curabile, crea cortocircuito. Le forme terapeutiche inibiscono la replicazione del virus, ma non guariscono. Il virus resta e una serie di studi dimostrano come la speranza di vita di chi è Hiv positivo è più bassa. È un tema di grande attualità, un’infezione che in Italia, ogni anno, colpisce circa 2000 persone e sulla quale spesso i giovani non sono informati e, anzi, hanno rimosso dai loro problemi di vita personale e sessuale. A loro, perciò, vorremmo restituire la complessità e la dimensione passata e presente di una storia che, di fatto, non è ancora finita».

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