Bob Wilson, alcune considerazioni sul ruolo degli artisti visivi nelle rivoluzioni teatrali
- Postato il 31 agosto 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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La recente scomparsa di Robert Wilson, uno dei creatori più geniali e influenti nella scena mondiale degli ultimi cinquant’anni, merita qualche considerazione storica non occasionale.
A mio avviso, non si riflette mai abbastanza sul ruolo spesso decisivo che hanno avuto gli artisti visivi nelle rivoluzioni teatrali del secolo scorso. E ovviamente non alludo soltanto alla scenografia e allo spazio scenico radicalmente ripensati, mi riferisco al ripensamento dell’intero spettacolo, dell’idea stessa di messa in scena e di evento teatrale. In fondo, erano pittori e scenografi in origine i due più importanti fra i padri fondatori della regia, Adolphe Appia e Gordon Craig, entrambi radicali sostenitori della assoluta autonomia della messa in scena, come nuova opera teatrale.
Venendo al secondo Novecento, in cui opererà Bob Wilson, artista visivo e creatore di happening era stato Tadeusz Kantor, prima di imporsi a livello mondiale come regista con La classe morta (1975); pittore era Julian Beck, appartenente al movimento dell’espressionismo astratto, vicino a Pollock e de Kooning, quando decise nel 1947, con Judith Malina, di dar vita a quella che diventerà la leggendaria compagnia del Living Theatre; scultore di origine tedesca era Robert Schumann, fondatore del Bread and Puppet Theater, il gruppo forse più emblematico nell’America degli anni Sessanta orfana del Living. E naturalmente artisti visivi erano gli inventori dell’Happening, sia negli Usa che in Europa, da Kaprow a Lebel.
Anche in Italia, il nuovo teatro si giovò dell’apporto di pittori, scultori e architetti, da Mario Ricci ad Achille Perilli, agli esponenti dell’Arte Povera.
Spesso in collaborazione con coreografi, danzatori e musicisti, gli artisti visivi nel corso del Novecento hanno fornito un contributo essenziale nel liberare il teatro da concezioni ristrettivamente testocentriche, oltre che dalle pastoie del realismo e della psicologia, per aprirlo a ricerche e sperimentazioni visivo-sonore differenti, in cui la parola veniva utilizzata soprattutto nel suo originario valore fonico-vocalico. E’ questo il contesto in cui va inserita la figura, per altro assolutamente unica e irripetibile, dello “stregone di Waco”, come lo chiamava Heiner Müller.
E’ la passione per le arti figurative e per la danza a segnare la giovinezza di Wilson, oltre all’interesse precoce per la disabilità infantile. Lui stesso del resto aveva sofferto di balbuzie, un handicap da cui guarisce soltanto a 17 anni, grazie a un’insegnante di danza, Miss Hoffman, al cui nome, per gratitudine, egli intitolerà la sua prima associazione interdisciplinare, fondata a New York nella seconda metà degli anni Sessanta, la Byrd Hoffman School of Byrds.
Quando debutta nel 1969 con The King of Spain, che considererà il suo primo spettacolo, in realtà egli ha già alle spalle molti anni di creazioni disparate: cortometraggi cinematografici, film incompiuti, performance, spettacoli di danza, collaborazioni con vari coreografi e registi come scenografo e costumista. Il tutto in parallelo con gli studi di architettura al Pratt Institute di Brooklyn.
Il “caso” Wilson scoppia a Parigi, dove arriva, nel 1971, con il suo terzo spettacolo, The Deafman Glance (Lo sguardo del sordo), una ”opera del silenzio”. Davanti agli occhi del protagonista, un giovane di colore sordomuto, Raymond Andrews, scorreva una partitura visiva caratterizzata da quelli che diventeranno i tratti distintivi della sua inconfondibile scrittura scenica: rarefazione del tempo, mediante il ricorso alla slow motion, e demoltiplicazione dello spazio, ritagliato, invisibilmente, in differenti sezioni dotate ciascuna di una sua autonomia, per le azioni che vi accadono e per la loro durata.
Questo lavoro sul tempo-spazio spesso comporta anche una sua dilatazione materiale, dando luogo a spettacoli di durata inusuale: dalle ventiquattro ore di Ouverture ai sette giorni e sette notti dell’evento presentato in Iran, al Festival di Shiraz, nel 1972, KA MOUNTain and GUARDenia Terrace, che si svolgeva su sette montagne fuori della città.
Il successo di The Deafman Glance segna l’inizio di una carriera folgorante, che prima vede Wilson tendere, anche grazie alla crescente utilizzazione della musica, verso una versione contemporanea dell’”opera totale”, tuttavia basata non sulla fusione delle arti ma – memore della lezione di John Cage – sulla loro autonoma giustapposizione (dal capolavoro Einstein on the Beach, con le musiche di Philip Glass, a Edison e a The Civil Wars); e in seguito misurarsi con l’intera drammaturgia mondiale, ma anche con l’opera, il musical, il balletto e il teatro classico giapponese.
Una produttività trasversale strabiliante, nella quale l’artista texano riesce quasi sempre a lasciare il suo segno inconfondibile. Anche perché qualunque sia il “genere” con cui si confronta, il suo approccio alla creazione scenica resta invariato: tutto inizia sempre con la sua progettazione grafica sulla carta, con matita e gomma, da vero architetto teatrale.
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