A cosa servono questi ‘romanzi popolari’ sul femminicidio? Fermiamoci

  • Postato il 25 novembre 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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“Da quando lei aveva chiesto il divorzio, lui era sprofondato nella depressione”.
“Non accettava il nuovo compagno, che la madre dei suoi figli si fosse rifatta una vita senza di lui”.
“Forse Luigi non sopportava di vederla felice”. “Perché Luciana dopo la fine della loro relazione era rinata, sempre gioiosa, giura chi la incrociava in quartiere”.
“I due si erano conosciuti nel lontano 1978. Si erano poi trasferiti nell’appartamento in cui lui l’ha accoltellata a morte. Per vent’anni avevano condiviso non solo la casa ma anche il lavoro”.
“Nel 2010 l’attività aveva però iniziato ad andare male. Tanto che la coppia era stata costretta a chiudere l’attività. Data che poi (quasi) coincide con l’inizio della crisi del rapporto di coppia e delle liti”.

Sono stralci veri di articoli sui femminicidi in Italia. Versi pubblicati sui nostri giornali ogni qualvolta diamo notizia di una nuova vittima.

Io li chiamo i “romanzi popolari sui femminicidi”. Le pagine dei giornali vanno riempite, certo, non solo. La ricostruzione del contesto in cui spesso avvengono i femminicidi è un modo per far capire che crimini di questo genere accadono in un contesto di assoluta normalità. Ok. Cioè l’assassino non è un mostro disadattato… è un uomo perfettamente integrato e che conduce una vita anche familiare apparentemente normale. Va bene. Ci sto. Ma siamo sicuri che stiamo facendo bene?

Ogni volta che leggo uno di questi “romanzi popolari sul femminicidio” mi chiedo a chi servono e se servono. Per chi sono scritti? Sicuramente non per le vittime e nemmeno per i suoi cari, sopravvissuti alla barbarie e alla perdita. Tipo un figlio, un orfano di femminicidio: cosa se ne fa di un romanzo popolare sull’uccisione della madre da parte del padre o compagno o fidanzato? Niente.

A lui forse serve sapere se è stato fatto tutto il possibile per salvarla, se le denunce che aveva presentato sono state prontamente prese sul serio, se la rete di protezione che doveva attivarsi si è attivata. Alle vittime servono le inchieste, serve giustizia.

Forse questi pezzi pieni di dettagli, sulle cause che potrebbero aver spinto l’uomo, l’assassino, il responsabile di femminicidio, ad ammazzare, sono anche scritti talvolta in buona fede, ma sono culturalmente il retaggio di un passato che dovremmo esserci lasciato alle spalle. I romanzi popolari dei femminicidi finiscono sui social, nel magico mondo di internet. Ed ecco che diventano fruibili da una moltitudine vastissima di lettori che li digerisce come vuole, con gli strumenti che ha.

Il web è pieno di storie di uomini separati che dopo il divorzio magari hanno perso anche il lavoro, uomini che non accettano la separazione perché ossessionati “dall’amore” per lei, uomini che quindi alla fine la accoltellano, strangolano, nascondono il cadavere della donna “amata”. Fermiamoci! “Lo stupro non è un surrogato dell’amore” scrisse Indro Montanelli il 14 dicembre 1966 in prima pagina sul Corriere della Sera nel suo editoriale su “La ragazza di Alcamo”, Franca Viola, colei che con il suo NO categorico al matrimonio riparatore, supportata dalla famiglia, si rifiutò di sposare il suo carnefice che l’aveva rapita, picchiata, violentata.

Anche il femminicidio, non è un surrogato dell’amore.

E quindi, prendo sempre in prestito Montanelli che nel 1966, concluse: “Noi contiamo che da questo processo venga fuori una sentenza che non si limiti a punire il delinquente, ma che anche condanni in maniera esemplare tutti coloro che se ne sono fatti complici, materiali o morali, la mentalità ch’essi incarnano”.

È 25 novembre ogni giorno dell’anno.

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Il Fatto Quotidiano

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