Sui femminicidi un racconto morboso. E a parlarne troppo e male, si rischia l’effetto emulazione
- Postato il 25 novembre 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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Fino a dieci o quindici anni fa, in Italia parlare di violenza di genere e di femminicidio sui media, in rete, ma anche a scuola, in università e nelle case, era molto più difficile di adesso. La stessa parola “femminicidio” non era così diffusa come oggi, e non lo era nemmeno sui media mainstream: come attesta l’Accademia della Crusca, è solo dal 2010 che i giornali hanno cominciato a usarla con frequenza crescente.
Intendiamoci: non è che oggi affrontare l’argomento sia facile, perché il tema è ancora “divisivo”, come si dice, cioè finisce per scaldare gli animi e per suscitare discussioni e litigi che non sempre restano civili, ma finiscono nel turpiloquio e nella violenza verbale. Però se ne parla, ci si confronta, e questo ovviamente è un bene, visto che in Italia la violenza sulle donne non accenna proprio a diminuire e, mentre per fortuna il numero di omicidi continua a scendere, il numero di donne ammazzate da mariti o compagni (attuali, passati o aspiranti), ma anche da padri, fratelli e altri congiunti maschi, resiste quasi identico da oltre trent’anni. Lo confermano tutti i dati ufficiali (checché ne pensi chi si ostina a negare il problema): si veda ad esempio questa tabella Istat.
Nel tempo, la mia posizione sull’argomento è cambiata. Per anni, infatti, su questo blog, su quello mio personale e sui miei canali social, come pure nelle aule universitarie dove insegno, ho sostenuto l’importanza delle parole e della denuncia pubblica di tanta violenza e tante uccisioni. Colpevole, infatti, sarebbe lasciare gli orrori nel silenzio. Certo. Però.
Però c’è qualcosa che non va. In quindici anni il dibattito è cresciuto sui media, i femminicidi, lesbicidi e trans*cidi si contano in modo sempre più preciso, le celebrazioni della Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne si sono intensificate ovunque. Eppure.
Eppure le donne continuano subire violenza in tutti i modi e gradi, in tutte le sedi e tutti i ruoli. E all’apice di questa violenza, continuano a morire per mano maschile, visto che in Italia c’è un femminicidio più o meno ogni tre giorni, e a volte più spesso. Da anni.
Cosa vuol dire questo? Anzitutto che parlare di violenza sulle donne e di femminicidi è meglio – ovviamente – che tacerne, ma – ancora più ovviamente – non basta. Il problema sta altrove infatti. Sta nella società violenta e nella cultura maschilista e machista, che in Italia è pervasiva e resistente. Sta nella scarsissima sensibilità e attenzione per la parità di genere in famiglia, sul lavoro, ovunque. Sta nella mancanza di educazione sessuale e affettiva a scuola. Sta nell’economia italiana, che vede da sempre l’occupazione femminile – ancora! – sotto la media europea. E se tu, donna, vivi con un marito, un compagno o un padre violento che ti mantiene, mentre tu un lavoro non ce l’hai o non ti basterebbe per vivere da sola, come fai a uscire dall’oppressione?
Ma il problema sta anche nel modo in cui se ne parla. Anzitutto, parlare di violenza in modo violento, con aggressioni verbali, insulti e litigi, non fa che alimentare il clima di prepotenza generale da cui poi nascono anche i casi estremi. E parlarne troppo, in modo insistente, morboso, quasi ossessivo, come accade in occasione dello stupro o femminicidio di turno, finisce per normalizzare il fenomeno e, peggio ancora, per trasformarlo in una tendenza, un vero e proprio genere mediatico, che lascia sempre più indifferente la maggior parte delle persone, mentre rischia di attrarre e fomentare, proprio per i tratti di morbosità di cui ho detto, quei maschi che già per conto loro sono più inclini alla violenza.
È da molti decenni che la ricerca psicologica e sociale ha evidenziato l’effetto emulazione connesso all’esposizione mediatica dei suicidi. Si chiama “effetto Werther”, perché fa riferimento al fatto che, dopo la pubblicazione del romanzo di Goethe nel 1774, ci fu in Europa un’ondata di suicidi per amore. Il fenomeno è stato spiegato grossomodo così: si presume che, per ogni persona che si suicida, ce ne siano decine che, per varie ragioni, ci stanno pensando; su di loro, la notizia agisce come catalizzatore, non solo perché “se l’ha fatto lui/lei posso farlo anch’io”, ma perché i media costruiscono un’immagine eroica del gesto. Ora, per evitare l’emulazione, è prassi consolidata, per i mezzi di informazione, tenere riservate le notizie dei suicidi, pubblicandole solo in casi particolari e con discrezione.
Sono poche e purtroppo ancora isolate le voci che, da qualche anno, parlano di un possibile effetto emulazione anche per l’esposizione mediatica di stupri e femminicidi. Ebbene, io sono fra queste e, mentre anni fa non ci pensavo proprio, oggi mi auguro che su questo ci sia presto una riflessione collettiva, sui media e altrove.
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