Chi ha armato il giovane che ha sparato a Miguel Uribe?

  • Postato il 9 giugno 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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Miguel Uribe Turbay, senatore e da poco candidato alla presidenza della Colombia, è stato gravemente ferito questo sabato 7 giugno da quattro colpi di arma da fuoco durante un comizio elettorale (non programmato) nel quartiere Modelia, Bogotá. L’attentato, compiuto da un ragazzo di appena 14 anni, ha sconvolto il paese e riaperto un doloroso capitolo della sua storia politica. L’aggressore, identificato come Juan Sebastián Rodríguez Casallas, è stato arrestato sul posto e trasferito in un centro medico sotto custodia, avendo riportato delle ferite d’arma da fuoco per gli spari prodotti dalla scorta del senatore. Al momento non ha fornito alcuna dichiarazione sui motivi del gesto.

Le ultime notizie parlano di delicate operazioni chirurgiche alla testa andate a buon fine ma le condizioni del senatore, anche se stabilizzate, rimangono estremamente critiche. Le autorità non hanno ancora confermato piste su eventuali mandanti ma hanno offerto una ricompensa pari a circa 600mila euro a chiunque possa fornire informazioni utili alle indagini.

Uribe Turbay, 39 anni, è senatore dal 2022 ed è stato il più votato della sua lista. Lo scorso 4 marzo ha annunciato la propria candidatura alla presidenza per le elezioni del 2026, nonostante i sondaggi non lo indicassero tra i candidati favoriti. Dentro una trama complessa e articolata di attori della violenza in Colombia, è difficile poter fare ipotesi su chi (e per quali interessi) abbia potuto voler colpire Uribe Turbay, in un contesto dove la promessa “Pace totale” di Gustavo Petro, sembra più lontana che mai. In questo senso le speculazioni non si sono fatte attendere e sono emerse ipotesi inquietanti su una possibile manovra interna da parte di settori conservatori volta a strumentalizzare l’attacco, mobilitare l’elettorato di destra e rilanciare la retorica anticomunista in un paese fortemente polarizzato.

Questo episodio però va oltre le congetture elettorali. Attentare alla vita di un candidato presidenziale non è solo un crimine individuale: è un attacco diretto al dibattito democratico. In Colombia, dove la violenza politica ha lasciato una lunga scia di sangue dal tempo delle lotte “senza quartiere” di inizio XX secolo tra liberali e conservatori, quanto accaduto riapre ferite mai completamente rimarginate. Ferite che fanno parte anche della storia personale di Uribe Turbay, nipote dell’ex presidente Julio César Turbay Ayala (1978-1982): un cognome che evoca potere ma anche tragedia. Sua madre, la giornalista Diana Turbay, fu sequestrata nel 1990 dal gruppo narco-paramilitare Los Extraditables, guidato da Pablo Escobar. Morì l’anno successivo durante un’operazione di salvataggio, colpita da un proiettile in circostanze mai chiarite del tutto. Miguel all’epoca aveva appena cinque anni e oggi, a più di trent’anni di distanza, la sua vita è di nuovo segnata da un’arma da fuoco.

Questo attentato si aggiunge a una lunga lista di omicidi politici che hanno macchiato la storia recente della Colombia: Jaime Pardo Leal (1987), Luis Carlos Galán (1989), Bernardo Jaramillo Ossa (1990), Carlos Pizarro Leongómez (1990), Álvaro Gómez Hurtado (1995). Nomi che testimoniano quanto sia fragile il confine tra parola e violenza in un paese dove esprimersi può costare la vita e dove il tempo sembra non passare mai. La violenza però non nasce nel vuoto ma è alimentata da discorsi d’odio, dalla disumanizzazione dell’avversario, dalla normalizzazione dello scontro. Per questo motivo, quanto accaduto richiede una risposta politica urgente: un patto etico tra tutti i candidati alla presidenza per disinnescare la violenza verbale e simbolica, difendere la diversità di pensiero e proteggere la democrazia.

Il profilo dell’aggressore — un adolescente di 14 anni — solleva inoltre interrogativi profondi. Chi gli ha messo un’arma in mano? Quale contesto sociale, educativo e culturale può spingere un minore a diventare strumento di violenza politica e trovare risposta nel sicariato? Cosa è stato fatto (o non è stato fatto), come società, per permettere che l’odio ideologico superi l’educazione, il dialogo, la cura? Non basta punire l’autore materiale ma è necessario interrogare il tessuto sociale che lo ha generato, le lacune istituzionali che lo hanno permesso e il sistema di valori che privilegia la sopraffazione sulla convivenza.

Di fronte alla barbarie, è urgente rivendicare la politica come spazio di confronto civile, qualcosa che in Colombia rimane un debito aperto. Difendere i diritti umani significa anche difendere il diritto al dissenso, alla parola, alla partecipazione senza paura. Questo in parte il senso delle manifestazioni che hanno riempito le strade del paese nelle ultime ore, inviando un messaggio di sostegno e solidarietà alla famiglia del senatore e condannando senza se e senza ma la violenza come strumento politico. La Colombia ha già pagato un prezzo altissimo per la violenza, un circolo senza fine, una storia che si ripete continuamente. Ora la prima responsabilità di chi rappresenta le istituzioni è non usare questo attentanto per alimentare nuove retoriche d’odio.

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Il Fatto Quotidiano

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