Dazi, Trump concede tempo alla Cina: un segnale di debolezza Usa. Vedi il caso Apple
- Postato il 21 agosto 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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Alle elementari tutti noi abbiamo imparato la prova del nove per verificare l’esattezza di un’operazione aritmetica. Mi è venuto questo in mente pensando all’ossessione di Trump per il numero 90 che dovrebbe a suo avviso mettere in riga il commercio internazionale.
Il 2 aprile 2025, il giorno della famosa dichiarazione della liberazione con i dazi, Trump aveva promesso 90 accordi (leggi: imposizioni) commerciali con 90 paesi, aprendo di fatto una guerra commerciale con tutti. Promessa solo in parte mantenuta. Alla scadenza del periodo la Ue ha ceduto ma non la Cina, e allora Trump ha concesso al gigante asiatico altri 90 giorni che scadranno a novembre.
Questa strategia per guadagnare tempo potrà funzionare, segno di una consumata astuzia commerciale, oppure è solo un chiaro indicatore della grande debolezza degli Usa, mascherata dai bluff di Trump? Personalmente propendo per questa seconda ipotesi.
Trump ha raddoppiato il tempo delle trattative nei confronti della Cina perché si è reso conto improvvisamente, secondo il suo stile capriccioso, di un fatto abbastanza elementare, che cioè gli Usa hanno più bisogno della Cina che viceversa. Questo ci fa capire quanto strano e indecente sia il capitalismo Usa a livello globale.
Potremmo, con un po’ di azzardo, parlare di un capitalismo a trazione comunista, con forti venature finanziarie. Definizione esagerata? Non tanto se prendiamo come caso di studio Apple, la nota casa che produce l’iPhone, la sua gallina dalle uova d’oro.
In primo luogo è chiaro che si tratta di un’azienda americana, la cui capitalizzazione è di 3,5 miliardi di dollari, e la terza al mondo. Le ragioni per produrre il telefonino in Cina le ha spiegate tante volte, anche a Trump, il ceo di Apple Tim Cook. Negli Usa il costo della manodopera è troppo alto e inoltre non troverebbe abbastanza maestranze qualificate, a cominciare dagli ingegneri informatici. Ergo, la sua produzione rimane saldamente a carico della Foxconn e delle altre imprese con sede in Cina.
Il risultato di questa delocalizzazione è strabiliante, anche per la sua durata, e consente profitti da capogiro. Oggi si stima che il costo alla produzione di un iPhone sia pari alla metà del suo prezzo finale per il consumatore internazionale. I profitti di Apple con l’iPhone sono tutti made in Cina.
I profitti derivano ovviamente dalla differenza tra i costi bassi e ricavi elevati. Dati i bassi costi di produzione, i prezzi degli iPhone potrebbero essere molto più contenuti. Ma questo non accade per l’abile politica di marketing dell’azienda. Nel suo campo Apple è un quasi-monopolista imponendo prezzi molto al di sopra di un sano profitto imprenditoriale. Quindi, ed è questa la seconda caratteristica distorsiva del capitalismo odierno, i benefici della delocalizzazione asiatica non vanno nemmeno ai consumatori come sarebbe logico, ma a qualcun altro.
Da ultimo viene l’aspetto finanziario. Dove vanno questi enormi profitti generati in Cina? Direttamente nelle tasche degli azionisti che sono i veri beneficiari del capitalismo Usa. Chi compra azioni Apple si ritrova con un doppio vantaggio. Il primo è quello naturale della distribuzione degli utili, il secondo deriva dall’aumento artificioso delle azioni dovuto al riacquisto delle azioni proprie da parte di Apple. Ancora a maggio la società ha deciso il riacquisto di azioni più grande della storia per un valore di 110 miliardi.
Nell’ultimo decennio l’azienda ha speso più di 800 miliardi per far felici gli azionisti. Dopo la decisione di maggio il valore delle azioni è notevolmente cresciuto. Quindi i veri vincitori di questo capitalismo globalizzato made in Usa sono gli azionisti che però poco contribuiscono alla creazione del valore.
Da dove vengono questo soldi che Apple distribuisce generosamente ai suoi fedeli azionisti? A questo punto è chiaro: dallo sfruttamento dei lavoratori cinesi e dalla rendita monopolistica a carico dei consumatori americani. Quanto dureranno queste due condizioni? Difficile dirlo. Certo che se la Cina fosse veramente un’economia di mercato e non una società controllata dal partito comunista sarebbero già da un pezzo cominciate le rivendicazioni sindacali che avrebbero eroso i profitti. Un regime comunista autoritario fa molto comodo alle multinazionali americane in un gioco economico realmente perverso.
La partita delle tariffe di Trump metterà fine alla pacchia per le aziende americane di produrre in Cina o negli altri paesi asiatici facendo pingui e facili profitti? Molto improbabile. Bisognerebbe che le rapaci aziende Usa rinunciassero a una parte dei loro profitti, abbandonando la dottrina Friedman, il grande economista reazionario, secondo il quale la missione sociale dell’azienda non era quella di abbassare i prezzi per i consumatori o aumentare i salari, ma semplicemente quella di creare il massimo profitto per gli azionisti.
Spremere i lavoratori e i consumatori a favore degli azionisti è il mantra ideologico del capitalismo internazionale contemporaneo. Su questa falsa premessa si basa, fin che dura, il successo delle multinazionali made in Usa che prosperano, come Apple, grazie a un regime politico comunista o comunque a regini autoritari.
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