Gioco d’azzardo: un Paese che spinge i cittadini verso il caso non promuove libertà ma rinuncia
- Postato il 11 luglio 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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di Pierpaolo Nastasia*
“Si gioca”. Due parole semplici, quasi innocue. Ma nascondono una trappola culturale: non è un invito, è una constatazione. Tutti lo fanno. È normale. Sei tu che sei fuori. È così che il linguaggio promozionale ha contribuito a normalizzare il gioco d’azzardo, trasformandolo in un fenomeno di massa. E mentre ci indigniamo per le scommesse dei calciatori, l’azzardo continua a crescere nella vita quotidiana di milioni di persone. E inizia presto.
Secondo il Libro Nero dell’Azzardo, promosso da Cgil, Federconsumatori e Fondazione Isscon, nel 2024 la raccolta complessiva ha raggiunto i 157,4 miliardi di euro, pari al 7,2% del Pil, 20 miliardi in più rispetto alla spesa sanitaria complessiva. Le perdite per gli italiani sfiorano nel complesso i 23 miliardi.
Da psicologo, vedo ogni giorno le conseguenze non solo individuali, ma che coinvolgono intere famiglie e reti prossimali. La domanda di aiuto spesso arriva in fase avanzata, quando i danni economici, relazionali e psicologici sono già significativi. Ma ci sono segnali che possiamo (e dobbiamo) intercettare prima.
L’avvicinamento può iniziare già da piccoli. Alcuni giochi virtuali riproducono dinamiche simili a quelle dell’azzardo: dai premi casuali e rinforzi intermittenti nelle app per smartphone alle famigerate “loot box” nei videogiochi più popolari, dove si acquista a scatola chiusa. Elementi che simulano la “quasi-vittoria” e creano familiarità con meccanismi basati sulla casualità e sulla frustrazione, trasformando il gioco in un’esperienza orientata all’eccitazione e alla ricompensa immediata, fino a renderlo ripetitivo e condizionante.
Ma il gioco d’azzardo, nella sua forma più diffusa e incentivata – come slot machine, Gratta e Vinci o scommesse rapide – non è vero gioco. Non valorizza creatività, relazione o competenza. L’unico elemento costante è l’Alea, il caso. Anche dove sembra esserci una componente di abilità – ad esempio nelle scommesse sportive – il fattore aleatorio resta dominante, e la sensazione di controllo può rivelarsi illusoria.
Tuttavia, questa casualità viene mascherata. L’esperienza di gioco si consolida su alcune distorsioni cognitive, tra cui: l’illusione di controllo (“posso influire sull’esito”); la rincorsa delle perdite (continuare a giocare per “rientrare” di quanto perso); la memoria selettiva (“una volta ho vinto”) che porta a sottostimare le perdite accumulate. Sono meccanismi mentali che alimentano l’idea di poter gestire l’azzardo, quando in realtà è l’azzardo a gestire te.
Riconoscerli è già un passo verso la consapevolezza. Se il gioco diventa un pensiero fisso, se si mente su quanto si è perso, se si gioca per recuperare: è il momento di chiedere aiuto. Il Disturbo da Gioco d’Azzardo è una condizione clinica riconosciuta, con criteri chiari e trattamenti efficaci. Ma i percorsi di cura sono disomogenei, l’accesso è a macchia di leopardo, e manca una strategia nazionale strutturata di prevenzione, nonostante l’esistenza di fondi pubblici dedicati alle dipendenze. Nel frattempo, la comunicazione promozionale legata all’azzardo continua a proporre toni leggeri, familiari e seducenti. Spesso accosta il “gioco” a sportivi famosi, socialità e successo personale, disattivando ogni riflesso critico e favorendo l’avvicinamento, anche da parte dei più giovani.
Serve allora un’azione culturale altrettanto continua, capace di contrastare questi messaggi e di rilanciare un’idea sana di gioco: fatta di tempo, relazioni, apprendimento, creatività. Un’esperienza che stimola la crescita, rafforza la socialità e riduce l’isolamento, spesso correlato con l’abitudine all’azzardo. Questo significa anche il potenziamento dei centri giovanili, delle attività sportive di base e il sostegno ai giochi da tavolo e di ruolo capaci di stimolare ingegno e socialità. Perché un Paese che spinge milioni di cittadini verso la casualità invece che verso il progetto, non sta promuovendo libertà, ma rinuncia.
*Psicologo Psicoterapeuta
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