I pazienti? Solo un numero strappato dalla macchinetta elimina code. Avanti il prossimo!

  • Postato il 26 aprile 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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di Fiore Isabella

Se non ci fossero quei cittadini claudicanti con in mano ricette e foglietti per il ritiro dei referti, rigorosamente arricchiti dalla voce liberatoria “ticket pagato”, ad osservare la marea di automobili, parcheggiate davanti ad un grande ospedale, nessuno scommetterebbe un lira sulla funzione sanitaria di quella struttura e, probabilmente, la confonderebbe con uno stadio di calcio di un pomeriggio domenicale.

All’interno nessuna “ola” per i campioni della “pelota” ma gente malata, ammassata al Cup per mettere a posto le carte grazie alle quali, versato obbligatoriamente l’obolo, si ha diritto all’attenzionamento sanitario. Prima di arrivare dal medico specialista, ci si sottopone ad una trafila burocratica tipica di un ufficio del Catasto dove si pagano i diritti di segreteria prima del rilascio di una visura.

Tutto questo in barba al carattere di inviolabilità della Costituzione repubblicana: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. L’articolo 32 della Carta Costituzionale risuona nella coscienza di chi, romanticamente, ne tesse gli elogi nei convegni sui Diritti, ma come troppo spesso accade “passato il Santo finita la festa”; un detto antico, non smentito dal tempo, che riguarda, se la vogliamo dire tutta, solo coloro che le feste le aspettano e non quelli che hanno la forza (economica) per trasformarle in feste ricordate.

È così nella sanità calabrese e non solo, dove chi dirige l’orchestra riduce la prevenzione dei “senza soldi e senza santi” a sistematici suggerimenti nutrizionali, integrati da dimagranti esercitazioni peripatetiche. E se il medico di famiglia gli prescrive un accertamento strumentale o una visita specialistica viene spesso tacciato di “dilapidatore” di risorse pubbliche o di incompetente che non ha capito che le aspirine e il brufen sono dei “toccasana” per curare i mal di testa e i dolori articolari: terapie miracolose per i poveri e per i “senza santi”, perché quelli che possono dribblano le radiologie del servizio pubblico e si accomodano in quelle private emettendo bonifici e staccando assegni.

Coloro che possono non hanno contezza delle liste di attesa, dei calendari bloccati, dell’ansia che si vive nell’attesa dell’esito di un esame istologico, con la spada di Damocle di trovarsi invasi da metastasi. Ma l’attesa non riguarda soltanto l’ordinarietà del rapporto con gli organi che invecchiano e con le cellule che impazziscono; riguardano, spesse volte per non dire troppe volte, le ambulanze del 118 non medicalizzate che arrivano in ritardo perché i mezzi si contano sulle dita di una mano come i medici e gli infermieri disponibili per la medicina di emergenza. Gli utenti sono solo dei numeri strappati dalla macchinetta elimina code che non saranno mai persone.

E questa condizione di “spersonalizzazione” del cittadino malato, condannato all’anonimato, si legge in quella marea di automobili che non accompagna allo stadio tifoserie festanti ma sofferenze massificate. Si comincia ad essere un numero al Cup, si continua ad esserlo per le visite specialistiche o per gli esami strumentali. E, infine, ancora un numero per il ritiro di un referto. Solo e soltanto un numero!

Fino a quando un medico scopre, facendo l’anamnesi o prescrivendo un farmaco, che l’utente si chiama GIUSEPPE e non VENTOTTO.

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Il Fatto Quotidiano

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