Il Pakistan sotto attacco dei talebani sconta un’ambiguità mai davvero risolta

  • Postato il 15 ottobre 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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Ogni volta che sento parlare del Pakistan e della sua “lotta al terrorismo”, mi torna in mente una frase che lessi anni fa: chi gioca con il fuoco, prima o poi si brucia. E secondo me, è esattamente quello che sta succedendo oggi a Islamabad.

Tutto è cominciato venerdì 11 ottobre, quando i Talebani pakistani (TTP) hanno rivendicato una serie di attentati nella provincia di Khyber Pakhtunkhwa, nel nord-ovest del Pakistan, al confine con l’Afghanistan. Tra gli obiettivi, anche una scuola di polizia colpita da un attentatore suicida e poi da un assalto armato, venti agenti e tre civili sono rimasti uccisi, insieme a cinque persone in scontri separati. È uno degli attacchi più sanguinosi degli ultimi mesi in un’area che da tempo è tornata a essere epicentro dell’insurrezione jihadista.

Dopo gli ultimi attacchi dei Talebani pakistani (TTP), che hanno provocato decine di vittime e spinto il governo a chiudere i confini con l’Afghanistan, il Paese si trova davanti al riflesso delle proprie scelte passate. È come se un fantasma che si pensava di poter controllare fosse tornato, più forte e più crudele di prima.

Penso che la crisi della sicurezza in Pakistan non sia solo una questione militare. È, prima di tutto, una crisi politica e morale. Da anni il potere civile si è rassegnato a lasciare nelle mani dell’esercito la gestione della sicurezza interna, come se fosse un affare tecnico e non politico. E quando la politica abdica al suo ruolo, sono i generali a dettare le priorità, spesso con logiche da caserma più che da Parlamento. Ritengo che questa sia stata una delle più gravi debolezze del Pakistan moderno: aver militarizzato la propria sicurezza, perdendo di vista il legame di fiducia con i cittadini.

La radice di questa crisi sta in un’ambiguità mai davvero risolta, quella tra politica e religione, tra pragmatismo e ideologia. Per anni Islamabad ha coltivato, più o meno apertamente, un atteggiamento di tolleranza verso i gruppi armati islamisti, visti come strumenti utili nella strategia regionale o come “cuscinetto” contro l’influenza indiana. Si parlava di “fratellanza islamica”, di cause comuni, di difesa dei “fratelli d’oltreconfine”. Ma i risultati, oggi, sono sotto gli occhi di tutti: i Talebani afghani, che un tempo erano interlocutori, sono diventati accusatori; il TTP, che si diceva “controllabile”, ora attacca scuole di polizia e postazioni militari.

Io penso che il Pakistan si trovi davanti a un bivio storico. Continuare a distinguere tra “buoni” e “cattivi” estremisti, quelli che combattono per cause “giuste” e quelli che invece colpiscono in casa, significa condannarsi a un’eterna instabilità. Nessuno può convivere a lungo con il fanatismo senza pagarne il prezzo. Non si può usare il terrorismo come strumento politico e poi stupirsi se quello stesso strumento si rivolta contro di te. È come allevare un serpente nel proprio giardino e poi lamentarsi del morso.

Mi colpisce anche un aspetto spesso sottovalutato: quello sociale. In molte zone del Paese l’estremismo è diventato parte del quotidiano, frutto di decenni di permissività e di una politica che, piegandosi alle minacce, ha finito per perdere la propria autorità morale.

Ritengo che l’attuale escalation con l’Afghanistan sia solo l’ennesima manifestazione di un problema più profondo. I Talebani afghani non hanno mai dimenticato di essere un movimento nazionalista oltre che religioso. Ora che governano a Kabul, vedono il Pakistan non come un fratello, ma come un vicino invadente. Accusano Islamabad di violare lo spazio aereo, di bombardare i loro territori, di trattarli con arroganza. È un copione già visto: le alleanze costruite su interessi tattici finiscono sempre per sgretolarsi, soprattutto quando manca la fiducia.

Credo che l’unica via d’uscita per il Pakistan sia una profonda revisione del proprio modello di sicurezza e, più in generale, della propria idea di Stato. Non serve un’altra offensiva militare, serve una rifondazione politica. Serve un governo civile forte, capace di affrontare il tema dell’estremismo senza paura di scontentare gli apparati. Serve una scuola pubblica che insegni pensiero critico, non fanatismo. Serve una classe dirigente che parli chiaro e che smetta di usare la religione come alibi o come arma elettorale.

Certo, tutto questo è più facile a dirsi che a farsi. Ma, secondo me, non ci sono alternative. O il Pakistan sceglie la via della chiarezza, ammettendo che il terrorismo non è solo un problema importato, ma anche un prodotto interno, oppure continuerà a oscillare tra vittimismo e repressione, senza mai affrontare le cause profonde della propria instabilità.

Alla fine la domanda è semplice ma decisiva, se il Pakistan vuole davvero cambiare e liberarsi dalle proprie ambiguità, rompendo con la politica del doppio gioco? La risposta determinerà il futuro non solo del Paese ma dell’intera regione, perché chi continua a convivere con il fuoco, prima o poi, inevitabilmente finisce per bruciarsi.

In foto: Una fila di camion diretti in Pakistan è bloccata sul lato afghano del valico di frontiera di Torkham, rimasto chiuso dopo gli scontri, nella provincia di Nangarhar, Afghanistan, martedì 14 ottobre 2025. (AP Photo/Wahidullah Kakar) Associated Press / LaPresse

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