Intervista a Roberto Ghezzi. Arte, tempo e fisica quantistica in una ricerca in Islanda
- Postato il 26 luglio 2025
- Arte Contemporanea
- Di Artribune
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In occasione del suo nuovo progetto, Iceland Still, che lo ha portato nelle aree più selvagge e remote dell’Islanda per condurre una profonda riflessione sul tempo, abbiamo incontrato Roberto Ghezzi (Cortona, 1978); per approfondire con lui la sua originale pratica artistica che, sviluppata a partire da una formazione di carattere tradizionale all’Accademia DI Belle Arti, si distingue per una metodologia che intreccia arte e scienza.
Intervista a Roberto Ghezzi
Come nascono le tue famose naturografie?
Come accennavi, “sono nato pittore”, pittore di paesaggio. La Toscana, da cui provengo, facilita l’attaccamento alla natura che, tutt’oggi, rappresenta il perno della mia ricerca; inoltre sono figlio d’arte, con un padre pittore e un nonno scultore. Con gli anni questo legame con la natura si è fatto sempre più intenso, sino a diventare endemico. Così, circa 15 anni fa ho sentito l’esigenza di instaurare un rapporto più profondo con il paesaggio; non mi bastava più rappresentarlo, avevo bisogno di viverlo, parteciparlo; così, per instaurare un contatto diretto, immediato, con ciò che mi circondava, l’acqua, la terra, i sedimenti, ho elaborato le naturografie, una modalità artistica totalmente inedita e personale.
Com’è avvenuto il passaggio dalla pittura alla naturografia?
È stato graduale, frutto di una lunga elaborazione mentale. Dato che mi sento comunque un pittore non ho mai rinunciato all’uso di supporti su cui posso intervenire e, anche quando ricorro a un approccio fotografico, lo riporto sempre a una dimensione analogica oppure utilizzo la fotografia stenopeica. Mi definisco un pittore che fa parlare la natura in tutte le sue forme; per questo considero le mie opere come autoritratti miei e della natura che interrogo.
A livello concettuale c’è stata una volontà particolare che ti ha mosso?
Sicuramente lasciar parlare la natura è stato anche un gesto provocatorio, di rottura; tanto che in principio mi limitavo semplicemente a collocare le tele nei boschi per molte settimane; solo successivamente ho iniziato a prepararle, strutturando anche l’aspetto scientifico del lavoro. Da lì ho cominciato a collaborare con gli scienziati, biologi, geologi, che cambiano in relazione al progetto; a scegliere con attenzione i luoghi…
Interessante, come e quanto entra la scienza nel tuo lavoro?
È essenziale. Naturografia è un neologismo che significa “scrittura della natura”. Io parto dall’aspetto artistico per costruire un ponte verso la scienza, lo studio della natura. Si tratta di opere scritte liberamente dal paesaggio, in cui il mio intervento è marginale e consiste proprio nel capire a seconda del luogo e dello scopo, in collaborazione con gli scienziati di riferimento come fare affinché la natura possa esprimersi al meglio.







Ci puoi dire di più?
Con gli scienziati scelgo con le matrici per raccogliere i dati, che possono essere più o meno articolare e complesse, di vari materiali, come cotone, seta, carta o carta fotografica, poi trattate con dei reagenti per recepire al meglio le creazioni della natura. Naturalmente definiamo il luogo migliore in cui collocarle e il tempo di giacenza, un intervallo fondamentale. Per questo definisco la mia pratica artistica processuale, oltre che performativa.
Nel corso della tua ricerca hai realizzato diversi progetti, tutti molto diversi tra loro, come nascono?
L’ideazione di un progetto nasce dalla volontà di interagire con un certo tipo di luogo o con una determinata problematica. In molti casi queste due finalità si incontrano, come nel caso dell’Artico, dove ho affrontato la questione della fusione del ghiaccio a causa del cambiamento climatico; oppure della Groenlandia, in cui lo stesso fenomeno è accelerato dalla proliferazione di un’alga; oppure scaturiscono dalla necessità di accrescere la sensibilità nei confronti di un determinato contesto ambientale, come il progetto in Nepal in cui ho voluto dare gli occhi alle montagne e da cui è derivato una ricerca sulle montagne più alte della terra.
Come strutturi il lavoro?
Dopo aver individuato il tema centrale, passo alla programmazione della fase esecutiva, andando a individuare prima gli scienziati da coinvolgere e, con loro, i supporti, le aree precise in cui collocarli e le tempistiche. Dopodiché, c’è tutta la parte logistica da organizzare, perché si tratta sempre di progetti impegnativi, in termini strumentazione, viaggi e ospitalità.
Poi ne pianifichi la presentazione?
Solo alla fine penso a come e dove proporre il progetto, per farlo vivere oltre la sua realizzazione. Scelta che dipende da tantissime variabili, dal momento che fino al termine ho solo un’idea di come sarà il risultato; perché, non scordiamolo, è sempre la natura che scrive sul supporto.
A proposito del tuo ultimo progetto “Iceland Stil”, rispetto ai precedenti ti sei spinto ancora oltre decidendo di lavorare sul tempo…
Esattamente, per questo sono arrivato a coinvolgere dei fisici quantistici, per cui il tempo rappresenta il primo oggetto di studio e riflessione. Le domande sono infinite: cos’è il tempo? Esiste davvero oppure è solo un’illusione dei sensi?
Come hai trasposto questa ricerca, fisica ma anche filosofica, in arte?
È stato indubbiamente sfidante. Per raffigurare, attraverso un’unica opera, lo scorrere del tempo ho adoperato un’attrezzatura fotografica ad altissima definizione caricata attraverso pannelli solari che scattava ogni 58 secondi per 24 h attraverso un intervallometro.
In tutto questo come si pone la dimensione performativa del lavoro?
È una componente centrale del mio lavoro che rafforza la ricerca. Insomma, si tratta di esperienze estreme. Al di là del trascorrere periodi in solitudine, a bassissime temperature, subentrano la scarsità di cibo, che se necessario sacrifico all’attrezzatura; come in Nepal, in cui dovendo trasportare tutto personalmente ho preferito portare più materiale che viveri; e di sonno, come in quest’ultimo progetto, in cui durante le sessioni di 24 ore di scatti, anche sotto la pioggia, al freddo, non potevo allontanarmi dal dispositivo per essere sempre pronto a cambiare le schede. Ecco tutto questo fa parte del lavoro.
Come arrivi agli esiti del lavoro, quindi alle opere nella loro forma finale?
Come anticipato gli esiti dipendono da tantissime variabili. Poi, per quanto riguarda l’opera nella sua dimensione estetica, cerco di adattarla alle esigenze espositive. Quindi posso lasciare le naturografie libere come delle sindoni, in una visione più installativa; oppure intelaiarle, come dei veri e propri quadri, dei paesaggi, come nel caso delle opere realizzate in Groenlandia. Insomma, sono scelte che dipendono anche dalla natura della mostra, se classica o sperimentale.
A corredo dei lavori presenti anche una documentazione, per spiegarne la genesi?
Sì, prevedo sempre degli apparati esplicativi. Da una parte scientifici, per spiegare la ricerca dietro il progetto, integrati dai dati scientifici forniti dai professionisti con cui ho collaborato; dall’altra personali, ovvero, costituiti da un’introduzione in cui racconto come sono arrivato a sviluppare quel determinato progetto. Inoltre, ogni mostra è accompagnata dall’esposizione di una serie di pagine tratte dai miei taccuini di viaggio che, componendosi di disegni a mano, acquerelli, schizzi, appunti teorici, poetici, pratici di ogni tipo, rappresentano una delle componenti più preziose del progetto, trasmettendone a pieno la dimensione processuale e installativa.
Come è nata la volontà di riflettere sul tempo?
Si tratta di un tema che mi porto dietro da 15 anni, da quando sono nate le naturografie che, come anticipato, hanno una forte matrice processuale, dal momento che la natura per scrivere richiede di tempo. Le mie opere sono sempre stratificazioni di tracce. Recentemente il tempo è proprio diventato il focus della mia ricerca, e per approfondirlo ho aperto un dialogo con i fisici quantistici che ne studiano le caratteristiche fondanti.

Qual è stato l’aspetto più impegnativo del progetto?
Bè, dopo aver risolto quello economico, che chiaramente rappresenta sempre un tema, dal momento che si tratta di progetti che richiedono budget elevati; c’è stata la questione dei permessi, perché intervengo su aree molto delicate e, pur presentando delle installazioni ecocompatibili, è sempre necessaria una valutazione sull’impatto ambientale. Infine la sfida più grande, come sempre, è stata l’incognita del risultato. Posso ipotizzare l’esito del processo, non prevederlo; anche perché possono subentrare delle varianti, come fenomeni naturali, animali o artificiali che rischiano di alterarlo o, addirittura, comprometterlo. Più volte ho dovuto interrompere il processo creativo per non rischiare di perdere le costose attrezzature.
Qual è il messaggio che vuoi trasmettere?
In generale quello di fare un passo indietro rispetto alla natura. Anche scegliere di non raffigurarla ma lasciare che sia essa stessa a parlare, per me è un gesto altamente simbolico con cui desidero sottolineare la necessità impellente di porsi in ascolto, per iniziare a comprendere il mondo, cercando di farlo nella maniera più umile possibile. In quest’ultimo progetto l’obiettivo è riportare al centro domande dal carattere esistenziale.
Quando e dove potremo vedere i risultati di questo nuovo progetto?
È ancora troppo presto per dirlo, perché la residenza è finita da poco. A livello espositivo sto portando avanti i progetti dell’ultimo anno.
Qual è il prossimo luogo che ti piacerebbe esplorare?
Questa è una domanda difficile, tra i tanti, sicuramente la foresta amazzonica, un luogo per me ignoto che ha un’incredibile biodiversità.
Per concludere, ritorniamo all’arte, quali i tuoi autori di riferimento?
Tantissimi… mi limito a citare due italiani che considero mentori e maestri ideali: Burri le cui opere fanno parte del mio patrimonio genetico e Penone che è stato un pioniere nel “collaborare” con la natura in una maniera molto interessante da cui, per alcuni aspetti, ho tratto ispirazione.
Ludovica Palmieri
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L’articolo "Intervista a Roberto Ghezzi. Arte, tempo e fisica quantistica in una ricerca in Islanda" è apparso per la prima volta su Artribune®.